Abbiamo riunito un fotofrafo –Bob Noto– e due editor per ragionare sulla presunta superiore fighezza di The Cube.
SP. Per arrivare al The Cube si sale all’ultimo piano di un palazzo anonimo, proprio dietro alla Galleria Vittorio Emanuele. Poi si percorre una rampa di scale, poi si passa in un corridoio nero che ricorda i bracci che collegano i gate agli aerei. “C’è da fare anche un pezzo all’aria aperta”, mi dice la signorina che mi accompagna, e se pensa che io sia vestita troppo leggera, il suo tono non la tradisce.
FC. Non ho un’auto, non mi serve. Non ho una casa di proprietà, mi piace l’idea di abitare gli spazi degli altri. Sono anche abbastanza d’accordo con il premier Monti sulla monotonia del posto fisso. Il consolidato mi dà le vertigini; il temporaneo mi acquieta. Non è questione di tempo prestabilito: anche l’eternità, quando non sai che è tale, ti appare temporanea. Il The Cube in piazza Duomo a Milano invece chiude il 26 aprile. Il ristorante temporaneo dell’Electrolux è appollaiato sul palazzo delle Generali Assicurazioni dal 19 dicembre scorso. E’ arrivato con il Natale, la primavera se lo porterà via.
SP. Si esce dal corridoio, si percorre un pezzo all’aperto in cima al palazzo, dove un sentierino geometrico è stato scavato in mezzo alla neve. Si entra nel cubo, una struttura tutta trasparenza e nitore, una bolla di tepore, e l’effetto di straniamento è fortissimo.
FC. Ci sono stata due volte. La prima è stata in una giornata piena di sole, così bella da poter mangiar fuori; la seconda era rigida e bianca per tutta la neve che era venuta giù. Nel Cubo si pranza e si cena (a cifre neanche tanto modiche), ma chiamarlo ristorante è francamente riduttivo. Insomma, vi sto dicendo che la recensione dei piatti non ve la faccio. E mi scusino i bravi e simpatici fratelli Christian e Manuel Costardi del ristorante omonimo di Vercelli, ma anche se m’avessero servito due fette di pancarrè con un po’ di prosciutto, io mi sarei sentita comunque una privilegiata. E qui entra in gioco il “fattore Milano”. Tutti quelli che non amano la città dovrebbero farsi un giro al The Cube. Quelli che già l’apprezzano, finirebbero per innamorarsene in modo definitivo.
SP. Milano da così in alto, e con una vista simile, si vede solo dalla Madonnina. Solo che, proprio come nessun newyorkese è mai stato sulla cima dell’Empire State Building, così i milanesi non salgono in cima al Duomo. Insomma, io non ci sono mai salita. E Piazza Duomo, da lì, è un’altra cosa.
FC. Non c’è un dentro e un fuori, ma un terzo spazio fatto di luci e di forme che si integrano perfettamente. Il bianco del corian scelto per l’allestimento interno fa pandant con il cielo lattiginoso di Milano, gli alveari della struttura diventano binocoli sulle figure antropomorfe del Duomo. Lo stesso materiale inventato dalla DuPont è traslucente, che significa che una parte della luce lo attraversa. Ci si ritrova in una bolla bianca e leggera, immersi in una luce che cambia cento volte nell’arco di una giornata.
SP. Un pranzo al The Cube è una via di mezzo tra un giro di giostra e un trattamento in una SPA di livello, solo che invece di massaggi viene elargito cibo – splendido, peraltro, grazie all’accattivante menu dei bravi fratelli Costardi – e attenzioni, e bellezza a profusione. A partire dal prezzo, per il quale l’unico aggettivo possibile è “astronomico” (200 Euro a pranzo, 275 a cena), è un’esperienza di puro lusso: il rapporto tra personale e avventori è 1:1, tra sala a cucina, lo champagne scorre e a fiumi e contribuisce a promuovere la convivialità: in tutto il cubo, infatti, non si è ospiti in più di 8.
FC. Da non credente dico che avere una sensazione tattile del Duomo da un po’ alla testa. Sei tu, la Madonnina e migliaia di piccole figurine giù da basso, che camminano come formichine impazzite. Ad altezza d’uomo c’è la solita frenesia milanese, i tacchi 12 e le gambe senza calze. Più vicini al cielo tutto rallenta: gli altri guardano le vetrine, tu sei a tu per tu con la Cristianità e con i camini che fumano.
SP. La coppia di belgi seduti alla mia destra festeggiava il suo secondo anniversario di matrimonio: già l’anno precedente nello stesso giorno erano stati al The Cube, e si erano ripromessi di “seguirlo” per l’Europa nel corso degli anni. A questo io ho enfaticamente commentato: “Ma questa è la cosa più romantica che io abbia mai sentito” subito gelata da un altro avventore, che ha chiosato “Ne deduco che non sente spesso storie romantiche”.
[Crediti | Link: Dissapore. Tutte le fotografie sono di Bob Noto, tranne l’ultima che appartiene alla rivista GQ]