Finora il racconto è stato un privilegio del critico, ma cosa succede quando un cuoco recensisce il suo ristorante? Abbiamo chiesto ad Arcangelo Dandini di riferire i piatti cucinati per noi di Dissapore. Attenzione parliamo di “Arcangelo”, il migliore ristorante di cucina romana del mondo.
Mettevi comodi e rilassati, volendo dirvi che l’infanzia ha formato lo stile della mia cucina e il modo in cui faccio la spesa, devo necessariamente passare per un breve racconto. Che è anche il resoconto di una cena che ho servito a quattro gourmet della squadra di Dissapore, capitati nel mio ristorante una sera d’inverno (parafrasando Italo Calvino). Un racconto che inizia da Fiumé, il cui nome significa animelle, metafora del Tevere simbolo di Roma; dell’aringa affumicata, patrimonio prezioso per chi doveva conservare il cibo attraverso l’affumicatura (fumé/fiumé, scontato francesismo); e del buondì Motta, proprio lui, attraverso la forma dialettale” fiju me'”( figlio mio), legato alla colazione e al richiamo di mamma Anna.
Le animelle di gola di vitello le ho cotte insieme a un battuto di salvia e rosmarino e un leggero brodo di zafferano. Opulente animelle che verranno braccate da elementi ostili, amari e aromatici ma che non cederanno il passo mai, finendo per cedere solo al vostro palato.
Vi racconto poi del Viaggio d’inverno a Rocca Priora, nel quale alcuni ingredienti legati al territorio come le ramolacce (sorta di broccoletto selvatico) verranno servite a mo’ di frittata. O del Panunto, micropanino con la stringata di maiale nero di Bernardino Lombardo; oppure di una stuzzicante insalata “primo sale” di pecora, abbinata a pere acciughe e agrodolce. Tornando al Viaggio d’inverno, per me è una pietanza essenziale, quasi un madeleine. Rievoca le gite a cavallo che durando giorni interi necessitavano di cibi facilmente trasportabili o eseguibili all’aperto con l’immancabile padella di ferro. E’ facile da preparare e senza fronzoli. Bastavano due uova, uno spicchio di pecorino primo sale, una pera, il guanciale stagionato (oggi sostituito dalla stringata di cui sopra), il pane, una quantità infinitesimale di salsa agrodolce, e le ramolacce che crescevano e crescono ancora spontanee intorno ai miei amati colli romani. Bastava coglierle e condirle con il grasso del guanciale.
Siamo arrivati alla pasta, e il deja vu si fonde con la realtà. Ossignore, è arrivato il momento di parlare della cottura. Allora, quando parlo di cottura della pasta fuoriesce il maniaco che è in me: non accetto compromessi. Per me il dente non e’ un’indice ma un’ossessione che rievoca vecchie diatribe familiari (soprattutto con mio padre Stefano). Le discussioni duravano ore, basate su domande del tipo: “In un piatto di pasta conta più il condimento o la cottura? Il nodo della questione è l’esecuzione, non a caso la risposta era invariabilmente: “l’esecuzione è il risultato”. Punto.
Ma il grano della pasta, cioè la quintessenza del sapore, si avverte di più se cuociamo la pasta vicino “al chiodo” (dente tenace), ma facendo così, c’è il rischio che la mantecatura risulti approssimativa, poco equilibrata. Domande, domande, domande che volteggiano nelle teste dei puristi. Nel tempo ho scoperto che a essere fissati per la cottura della pasta sono davvero in tanti.
Il racconto continua con il piatto più controverso della cucina italiana: la carbonara. Da me preparata con i rigatoni di Verrigni. La storia o meglio, l’analisi della storia, ci porta alle antiche origini abruzzesi della “cacio e ova”. Ma oggi, a quella ricetta aggiungiamo il guanciale, così lo scenario storica cambia. Cari gastrofanatici, eccoci negli United States of America, ci siamo appena svegliati e Rachel Ray sta preparando la prima colazione in cucina. A parte gli scherzi, io la “cacioeova cor guanciale”, la preparo sgrassando il guanciale (che gli americani scambiarono per la loro pancetta/bacon, in quanto il guanciale, come l’aringa, si affumicava al dolce fumo dei camini), manteco le uova a freddo senza albume, aggiungo il pecorino, un’inezia di pepe tostato al momento… e amen!
Ora mi fermo un secondo e riprendo fiato perché nella famosa sera d’inverno il ritmo di lavoro nel mio ristorante è aumentato, sono sull’uscio della cucina e decido: Rigatoni di Verrigni alla Matriciana (scritto cosi, con la m). Simbolo della cucina pastorale, urbanizzato per merito di un cuoco di Amatrice, anche questo piatto prende spunto, anzi nasce, da una pietanza chiamata “cacio e unto” (aridaije cor pecorino). A Roma nella prima meta’ dell’ottocento vennero aggiunti il pomodoro e il peperoncino, cioe’ tre, dico 3, sapori, cambiando in maniera radicale l’impianto organolettico del piatto.
Io preparo la matriciana sempre con l’adorata sauté di ferro (ritorna la padella), peggior conduttore di calore a memoria d’uomo, che al solo contatto con il guanciale lo irretisce e lo brunisce rendendolo croccante, non molle e incosistente (in questo caso il segreto è il taglio, ma stavolta nun me la canto). Niente cipolla né tantomeno vino: francescana, asciutta, rigorosa nella sua semplicità, con quel pizzico di peperoncino per dare vitalità alla dolcezza del pomodoro e far risaltare la sapidità del pecorino. Siamo arrivati quasi alla fine, dico quasi perché il piatto che sto per raccontarvi parla dei giorni nostri e dell’incontro con il “Michelangelo dei pizzaioli romani”, Gabriele Bonci. Massimo esperto di lievitazione e cuoco dalle intuizioni geniali, talvolta vicino al parossismo sperimentale, ma che davanti all’ aglio rosso si commuove e inizia a balbettare.
Ecco, Gabriele è la sintesi tra avanguardia e radici della tradizione. Il piatto che gli ho dedicato è: Spaghettoni di Benedetto Cavalieri, aglio rosso, parmigiano stravecchio e mosto cotto. Nel quale, gli spaghetti con il grano di Maglie facilitano la passerella degli altri ingredienti, tutti così nervosi e a tratti esuberanti. La pasta con la cifra del suo grano, leggasi dolcezza, assume il ruolo di arbitro imparziale tra gli elementi aromatici, piccanti e sapidi. Come in un molle cuscino dove riposare, gli ingredienti si adagiano e dormono cullati dal sapore.
Avrei concluso, rimane il dessert. L’Anabasi, sotto forma di torcione di fegato d’oca e biscotti Plasmon, è una vera regressione all’età infantile. Ricordi che puntano dritti all’apice gustativo, il fegato d’oca, summa del delirio organolettico e spiegazione del viaggio, dell’Anabasi. Sono partito dai biscotti plasmon per approdare al fegato grasso. E così, cari gourmet, ho concluso. Arcangelo Dandini, Oste in Roma.
Immagini di Marco Salzotto e Francesco Arena (Scatti di Gusto).