Cose sul Noma che sanno tutti: uno dei primi (il primo stando alla classifica 50 Best Restaurants) ristoranti al mondo, è stato pionere della Nuova Cucina Nordica. Lo chef, René Redzepi, è stato alcuni mesi fa sulla copertina di Time, incoronato “Eroe del locavorism” – che sarebbe più o meno il km0.
Io ci ho pranzato la scorsa settimana e ho appreso così alcune altre cose. Vorrei dirvele tutte ma sono più dei 25 piatti del menu degustazione. Vado?
La cucina del Noma si basa su materie prime della Scandinavia, e molti degli ingredienti sono raccolti nel raggio di pochi minuti di strada dal ristorante, situato su di un’isola nel centro di Copenhagen. Nella bella stagione, le mute di stagisti –non retribuiti, sono sempre circa una trentina di persone da tutto il mondo– escono la mattina in bici dietro a uno degli chef e vanno a raccogliere fiori, radici, bacche, germogli.
Pranzare al Noma vuol dire essere sbalorditi.
Quando vado al ristorante e mi viene descritto un piatto, in genere capisco cosa mangerò. Qui non è così: non conosco almeno metà degli ingredienti delle preparazioni. “Questo è Æbleskiver e muikku”, mi spiega il cameriere.
Io annuisco ma batto ripetutamente le ciglia in un modo che tradisce la mia totale incomprensione. “Vuole che parli più lentamente?” si offre lui, sollecito. “È tipo un krapfen?” tento io. “Non so cosa sia un krapfen” replica lui.
Si mangiano bacche, erbe, radici, germogli, uova, frutti di mare, pesce. Il talento di René Redzepi sta nell’aver creato una cucina basata sulla generosità della natura – pochi ingredienti sono stati coltivati o allevati – in un luogo che invece appare, a un occhio disattento, molto avaro per via del clima rigido: anche questi primi giorni di giugno, quando a Milano faceva già molto caldo, a Copenhagen servivano soprabito e una sciarpa, e per tre giorni non c’è stata una spera di sole.
Per certi versi, la cucina del Noma è una cucina severa: le note prevalenti sono l’acido -bacche, frutti acerbi, crème fraîche– e l’amaro – radici, fegato di merluzzo, aghi di pino. È una cucina poco rassicurante – si potrebbe dire che è una cucina per adulti.
Eppure è una delle cucine più ludiche in cui mi sia mai imbattuta: i piatti ti ingannano, ti prendono in giro, ti invitano a giocare. Le cose non sono mai quello che sembrano. Molti dei piatti, tra cui la tartare di manzo e acetosella, si mangiano con le mani – e allora forse è anche un po’ una cucina da bambini, o almeno da quei bambini che stanno dentro agli adulti.
Il primo antipasto, Focaccina al malto e ginepro, è più mimetico dell’insetto stecco, più elusivo del camaleonte. Sta nascosto nel vaso di fiori che decora il tavolo.
A seguire, c’è un piccolo ciuffo di licheni, alimento base della dieta delle renne, fritto. Viene portato in tavola appoggiato sul muschio: quando il cameriere mi porge il piatto, mi dice una prima volta di mangiare solo il lichene. Prima di andarsene, mi ripete: “SOLO IL LICHENE”.
E ancora: un intero piatto di cozze – ma sono tutte vuote, tranne due: e la conchiglia è commestibile.
Per mangiare “Ravanello, terra e erba”, bisogna cavare la pianta dalla “terra” (malto, in realtà) del vaso in cui viene portato in tavola.
La langoustine, una sorta di enorme scampo, sta adagiata su di una roccia, punteggiata di una crema a base di alghe. Va – anche lei – mangiata con le mani. È buonissima, un frutto di mare perfetto: e anche uno dei pochi piatti facilmente riconoscibili.
È il turno di “Asparago e pino”: asparagi bianchi su crema di asparagi verdi cotti alla griglia, con un ciuffo di aghi di pino novelli. Nel piatto c’è anche un rametto di pino. “Quello non lo mangi” mi dice il cameriere. “Anche se in realtà potrebbe, ma ci metterebbe molto“.
I dolci non sono davvero dolci. Sono – ma ormai lo avrete indovinato – amari e acidi.
Il primo dessert è un budino di yogurt con l’amaro di erbe Gammel Dansk.
A seguire, Albero di Pere – anzi: “Albero di pere!”, con il punto esclamativo. Una mezza pera grigliata accompagnata da un parfait al pino. Di pino! (punto esclamativo aggiunto da me).
L’ultimo dolce – rabarbaro e crema al latte – è quasi dolce: merito di quello che sembra un crumble, ma sono invece briciole di formaggio stravecchio. Irresistibile.
Questi piatti non assomigliano a nulla di già mangiato. Sono radicalmente altri: non offrono appigli per la memoria, non si confrontano con precedenti. L’altra faccia della medaglia della libertà che lo chef si prende è la libertà che offre: l’ebbrezza di fare un’esperienza del tutto nuova.
In confronto alla cucina, la carta dei vini è quasi rassicurante: molti nomi noti del naturale, ricarichi piuttosto alti. L’abbinamento al calice ci ha consentito un bellissimo percorso che ha compreso solo vini bianchi, tutti naturali: quasi solo Francia, con incursioni in Germania e in Austria.
Il menu degustazione costa circa 200 Euro, l’abbinamento al calice 125. Noi abbiamo speso in due 550 Euro, con un po’ di sconto.
[Crediti | Link: Dissapore, immagine Noma: Getty, immagini piatti: Sara Porro]