Il preambolo milanese di questa storia si svolge in febbraio, quando a una festa incontro Moreno Cedroni. Il cuoco-imprenditore mi rimprovera di latitare dai suoi locali, a Senigallia la Madonnina del Pescatore e l’Anikò; a Portonovo di Ancona il Clandestino. Vuole raccontare con calma progetti che a me interessa conoscere. —Ci vediamo presto—è il mio saluto. Lo chiamo un giorno di inizio mese, passata da poco l’ora di pranzo. Gli dico che cenerò alla Madonnina, che saremo in tre. All’ora convenuta telefono di nuovo, abbiamo qualche minuto di ritardo. Non è un problema.
Prima di proseguire nel racconto, ho una domanda da farvi. Per quale ragione scegliamo un ristorante? Non lo facciamo solo per la cucina. Può darsi che il giudice di una guida lo scelga per la cucina, non la maggior parte di noi. La maggior parte di noi sceglie un ristorante per un groviglio di ragioni—ospitalità, atmosfera, un senso di benessere, per stare in compagnia degli amici, per disporre di una mise-en-place più importante del solito, per essere a nostro agio, per creare discontinuità con il posto dove viviamo o lavoriamo, per vedere persone più raffinate di quelle abitualmente frequentate, e di conseguenza, perché il posto renda più affascinanti anche noi. Sono molte le ragioni per scegliere un ristorante, e quando ne scegliamo uno probabilmente facciamo un calcolo inconscio di tutte queste ragioni. Mettiamoci anche quanti soldi stiamo per spendere, quanto siamo affamati, su chi vogliamo far colpo. Tutte queste ragioni contano quanto la cucina. Nessuno va al ristorante perché ha fame. Se sei vermanente affamato, ti sfami con pane e formaggio. Al ristorante ci vai perché hai un appetito, e avere un appetito non è la stessa cosa che avere fame.
Ma nessuna fottuta scusa potrà mai spiegare perché la persona che ti ha invitato nel suo ristorante non si degna nemmeno di salutarti. Anche se si trova nel suo ristorante, e sa perfettamente che ci sei anche tu. C’è una sola vera ragione che ci fa tornare in un ristorante, l’ospitalità, quella sensazione di essere accolti, confortati e saziati. Non sono cose che si trovano nel menù, ma un bambino di 3 anni lo capirebbe. Purtroppo ai bambini di 3 anni non è permesso gestire un ristorante.
E se a parte l’ospitalità mi chiedete della cucina vi rispondo che i “rigatoni all’arrabbiata con alici fresche e melanzane” erano il solito capolavoro, che il “piccione in brodo di granchio e anice con pane speziato” ha prodotto ululati di piacere contenuti a fatica, che il “magnum di cioccolato al latte, con ripieno di limone e zenzero”, è un geniale involucro di sapore. Ma pure che la maggior parte dei piatti ha espresso una cucina insignificante e piena di stanchezza. Stanco anche l’ambiente, rimasto quello di un tempo, quando stare in questo ristorante significava essere al centro del mondo. Servizio gentile, toilette buia e pericolosa. Lasciando fare al cuoco, abbiamo speso 300 euro in 3. [Fotografia: La grande abbuffata]