In tanti, tantissimi mangiamo fuori a pranzo: lavoriamo tutto il giorno, non abbiamo tempo per tornare a casa a mezzodì, in qualche maniera dobbiamo alimentarci. E visto che ci troviamo in questa situazione in media 22 volte al mese, si intuisce che il break ha un impatto fondamentale sulla nostra alimentazione.
Chi magari è occupato nelle grandi aziende ha la fortuna/sfortuna di avere la mensa – fortuna perché comoda e bilanciata, sfortuna se non di qualità -, ma gli altri? Ad alcuni viene consegnato un “buono pasto” che si può spendere nei bar e nei locali della zona, tanti si devono semplicemente arrangiare.
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Le alternative non sono poi molte: o ci si porta la schischetta – o baracchino, o bulacco -, o si mangia al bar, o in pizzeria/trattoria. Qual è la soluzione migliore? In tanti anni di pratica (e con un poco di studio, ne ho scritto ieri su Repubblica) ho capito che la soluzione migliore, come in tante altre cose della vita, è variare.
La schischetta è indubbiamente migliore dal punto di vista nutrizionale: meno condimenti, meno grassi, meno elaborazione, più controllo, ma certo è piuttosto triste mangiare accanto al computer o nella cucina dell’ufficio. Per velocità e gratificazione il bar è il massimo: panini e tramezzini buoni sono meraviglie e bastano pochi minuti. Dal punto di vista della socialità e della cucina la trattoria – sedersi con più calma, mangiare cucinato – non ha pari.
La pausa pranzo può infine essere anche gastronomica: ormai sono molti i locali gourmet, anche gli stellati, che propongono un “light lunch” di charme a 20 euro o giù di lì.
Un bar, un baracchino, una trattoria, una schiscetta e uno stellato, il venerdì, mi sembrano costituire la sequenza perfetta. Proverò a mettere in pratica questa teoria. Dal punto di vista della salute e del portafoglio non posso che guadagnarci, io che mangio al ristorante cinque giorni su cinque.