Il nome spiazza: F-r-a-n-k R-i-z-z-u-t-i. Il pensiero va subito allo stereotipo del gangster italo-americano negli anni del proibizionismo, alle foto segnaletiche in gessato, il borsalino calato in testa e un beffardo sorriso di sfida. Poi non ricordo più neanche dove in mezzo a quel delirio di carta e polvere che sarebbero i miei appunti, capita di stringergli la mano, bastano poche parole che la riservatezza gli concede per apprezzare l’umiltà del grande chef, subito rassicurante.
Conoscendolo un po’, immagino che il mio ingresso all’Antica Osteria Marconi di Potenza, direttamente sullo stradone e dietro una porta anonima, si accompagni a una nuance sugo-di-melanzane delle guance. La sala molto intima e accogliente si stempera in un patio arioso e quindi nel giardino. In fondo, dietro una piccola porta che nasconde la cucina, vive l’anima bifronte dello chef: la prima, sconvolta dallo stage del 2000 con il genio rivoluzionario di Ferran Adrià, e l’altra, profondamente lucana, che alla soglia dei 30 anni gli ha imposto di interpretare professionalmente tradizioni e ingredienti della sua terra.
Niente indecisioni però, regole e modernità tagliano orizzontalmente il gastrocosmo dello chef, il menù degustazione e un’avventura davvero completa. ‘Sta volta bastano i nomi per capire: orecchiette con soffritto di agnello e caciovallo podolico, coscio d’agnello a bassa temperatura con patate alla cenere, lampascione al limone con salsa cacio e uovo. Sapori primitivi e odori familiari anticipati da una batteria di divagazioni concettuali sul tema, creative e tecnicamente raffinatissime, che da sole valgono il prezzo del biglietto. Prima il gambero rosso marinato con prosciutto di maiale a ghianda e burrata artigianale, piatto zen e lasciapassare definitivo alla cucina dello chef, poi il bosco nel piatto, cioè cosa può nascere dall’incontro tra schiacciata di patate, tartufo estivo, sabbia di porcini ed erbe, uovo di quaglia e verdure brinate – con un respiro europeo che mi spinge a inviare plauso in cucina per interposta persona (il maitre), e ancora la splendida tavolozza di acquasala dove, come pittori impressionisti, intingere il cucchiaio nel tuorlo d’uovo di Parisi o nella spugna di rape, nel croccante peperone di Senise e nella plastica rivisitazione della panzanella.
Il remix del tiramisù e la piccola pasticceria non sono all’altezza del resto (“i dolci se li cucini con il cuore e con lo stomaco non ti appassionano” dirà poi salutandomi). Calici affidati al “Barolo del Sud” ovvero l’Aglianico del Vulture, prima vinificato in bianco con “La Stipula 2008 Brut Cantine del Notaio” e poi con il robusto ma meno convincente “Eleano 2004” dell’omonima tenuta.
Nota a margine: a meno di abitare nelle immediate vicinanze spenderete più nella benzina: menù degustazione 5/7 portate a scelta dalla carta 35/45 euro e se siete venuti per affari, light lunch 4 portate a 17 €. (diciassette!). Si sceglie da una carta rinnovata ogni giorno.