Cinque lettere che da Carlo Levi in poi non identificano solo uno dei 9084 Comuni italiani bensì, in un continuo rimando letterario, un confine, un precipizio, il luogo dove oltre alle speranze finivano strade e ferrovie: Eboli. Eppure anche una terra altruista dove addirittura coltivare un sogno. Il sogno di Maurizio Somma, virologo, esperto di fecondazioni in vitro, riuscito in pochi anni a schiodare la città dal romanzo di Carlo Levi portandola in tutte le guide gastronomiche, fino a costringere non più Cristo ma la Michelin a fermarsi per la consegna della stella.
E’ la storia di una grande passione che dal 1993 con la nascita del Papavero, non deflagra tra le provette di laboratorio ma nell’orto o in giro per la piana del Sele a ricercare prodotti, tra le pentole o in cantina a coadiuvare le scelte di una squadra giovane e motivata: in cucina Teresa Napoli, a conferma di una nouvelle vague femminile tutta campana, in sala Roberto Longobardi, sommelier, al quale confesso la mia sorpresa nella scelta del vino sfogliando una carta stuzzicante e con ricarichi cristallini.
Qui a tavola ci si diverte, perché il filo rosso del menù è l’interpretazione creativa e sorprendente dei frutti di terra o del mare che, in un paio di ore e per 40 euro, si materializzano sul runner: un benvenuto, 2 antipasti, 2 primi, un secondo, il predessert, il dolce a vostra scelta e la piccola pasticceria in una maratona culinaria resa olimpica dalle porzioni XL.
Ci sono piatti da registrare (il risotto con cozze e canasta è soffocato da una salsa di pecorino aggressiva), a volte da semplificare (lo spaghetto con finocchi, bottarga, totani e frìggitelli), qualche presentazione da ingentilire però non mancano le note positive. Per ritrovare il sapore della “braciolina di seppia con verdure e passatina di cicerchie” o la assoluta perfezione del “trancio di pescato (spigola o dentice) affumicato con variazione di broccoli”, una specie di manifesto del ristorante sospeso tra tradizione (nel pesce assoluto esaltato dal fumo “fatto in casa”) e modernità (nella scala delle consistenze tra verdura passata, saltata e fritta) bisognerebbe risalire verso nord aprendo, e di molto, la tasca.
Poi, attraversando il bel giardino in allestimento, mi aggiro tra le sale del piano superiore: 300 metriquadri che a giorni accoglieranno il ristorante, dove l’architetto Sabrina Masala (lo stesso del ristorante di Gennaro Esposito) ha delineato il nuovo stile del Papavero: accogliente e riservato, familiare ma non rustico, contrappuntando la classicità degli ambienti di Palazzo Sisto con colori intensi, arredi e oggetti sia vintage che di design contemporaneo.
E soprattutto, sedie più comode di quelle che finora hanno accolto le preziose terga dei clienti paganti.