Siccome non siete la segretaria dello studio dentistico xyz costretta ad affollare il tavolino della sala d’attesa con tonnellate di Gamberi Rossi assortiti, ma anzi, persone di mondo, fatemi sapere cosa ne pensate.
(⇑) ROMA.
Sono serissimo, non un generatore casuale di entusiasmi culinari. Beh, ROMA E’ ANNICHILENTE. So di dire cose per le quali nei blog la gente si scanna, ma ho l’impressione che Roma entri a pieno titolo nella mitologia moderna dei ristoranti, con una spumeggiante antologia di cacio-e-pepi, enoteche, botteghe e pizzerie, completata da un’offerta ancora ormonale eppure potente di cose mai viste.
Dall’arrondissement gastronomico di Settembrini (risto+caffè+librebria con uso di cucina) al negoziettofoodie-cateringchic, fino al Deli Kosher con aspirazioni newyorkesi. Lo pensavo con un angolo del cervello al compleanno di Dissapore, guardando due fenomeni come gli chef Riccardo Di Giacinto e Giulio Terrinoni, Roma ora è una città gastronomicamente matura come poche al mondo.
(⇓) TORINO.
E’ ancora il posto dove il consueto pediluvio mattutino si accompagna a colazioni dolcissime. Mulassano, Venier, Il Bicerin, Pfatisch rappresentano il rapporto Caffè/Felicità più favorevole del Paese, e gli intimi del gelato riconoscono un istinto acutissimo a Marchetti in Corso Vittorio Emanuele II. Ma per molti il risto di riferimento è ancora Il Cambio, possibile? E i nuovi, con poche eccezioni (Scannabue, Slurp, Magorabin) faticano. Basta Eataly per risvegliare la città da questa specie di morte apparente?
(⇑) NAPOLI.
Sia messo a verbale che i ristoranti napoletani non mi piacciono tanto, così scanso i sospetti di amoroso deliquio con la città. Il punto è il virtuosismo del napoletano medio, le sue condizioni non negoziabili in fatto di mangiatoie, la centralità della pizza, il cibo di strada: ciò che altrove è buono per i napoletani è solo passabile. Ma tornando ai ristoranti e tralasciando la costellazione di stellati nei dintorni, il riscatto della Napoli de-spazzaturizzata passa per gli investimenti giovani in banlieue altrimenti derelitte. Tipo che Sud della chef Marianna Vitale a Quarto, è un mezzo miracolo.
(⇑) VENEZIA.
Precisiamo a scanso di equivoci che l’idea di Venezia dei ristoranti disgustosi, tutti trappole per turisti, chiusura alle 21, e attenzione zerovirgola a quel che si mangia, oggi è fortunatamente in crisi. Resistono i truffatori al limite dell’intossicazione alimentare, ma in attesa che vengano rieducati a sganassoni, scaracollandosi per bacari e fritolin si fanno esperienze schiette a prezzi accessibili. Non per generalizzare alla CdC (***zo di cane), fenomeno diffuso parlando di ristoranti lussuosi, ma il moderno MET dello chef Claudio Fasolato sta facendo proseliti, vedi il Lineadombra. E in arrivo c’è il Caffè Quadri degli Alajmo.
(⇑) FIRENZE.
Fino a qualche anno fa definire la situazione stantia non era un’iperbole, i ristoranti erano estremamente datati, entrarci significava viaggiare a ritroso nel tempo. Il panino col lampredotto di Nerbone al mercato di San Lorenzo restava il primo indirizzo consigliato dagli esperti. Fagioli cannellini, cavolo nero, bistecca, ribollita e pappa col pomodoro meritano rispetto ma c’è altro? Ora qualcosa sta cambiando, se qualcuno recupera il folclore senza appellarsi alla serialità schiacciasassi della trattoria toscana, vedi piccoli posti magici come Il Cernacchino, altri riprendono la strada della sperimentazione: provate IO-OsteriaPersonale, per qualcuno è il posto dell’anno. E spuntano piccoli poli risolutivi anche a ridosso degli Uffizi, dove convivono gomito a gomito L’Ora d’Aria dello chef Marco Stabile, lo spuntino-cult di ‘Ino, e il gelato del vulcanico Simone Bonini, da poco approdato in Via Lambertesca con il secondo Carapina.
(–) SENIGALLIA.
Per quelli che se la sono ingenuamente persa, o che ancora non capiscono che un banale paesotto della riviera adriatica inserito tra le città più buone d’Italia non è lo sfizio di un provinciale illuso e sognatore, ma una verità (per quanto stramba), mi appello alla solita spiegazione: la concomitante presenza di due gladiatori (Mauro Uliassi, Moreno Cedroni) capaci di sfidare l’impero. Tuttavia Senigallia è anche altro. Ristorantini, enoteche, osterie e… Michele da Ale (pizzafan esci da questo corpo!)
(⇓) MILANO.
“Per dire che a Milano si mangia bene bisogna avere gusti agghiaccianti”. Non mi piego ai capricci di chicchesia, perciò ho risposto al conoscente snob che col numero del celolunghismo cascava maluccio. Hey, io amo Milano. Ma a pensarla così sono in molti. La città non tiene il passo di Roma, la sua cucina povera non ha la stessa vocazione internazionale, nonostante le “Antiche Trattorie” (del Morivione e del Gallo) o posti dall’impianto tradizionale come Il Sambuco restino indirizzi consigliabili. Ma dopo 10 risotti, ossobuchi e costolette viene voglia di consegnarsi a Carlo Cracco. Che per carità resiste (o cresce) come Trussardi alla Scala del resto, epperò i ristoranti famosi per tutti e punto finiscono lì. Ci sono wannabe accreditati, cucine straniere di estremo sollievo e curiosi nuovi format ma niente spiriti indomabili, così dopo un po’ — sailcieloperché — si rimpiange di non essere a Roma. Ouch!
(–) PALERMO.
Viveteci a streetfoodopoli, dove quel che si mangia non deve passare 6000 gradi di sofisticazione culinaria per essere appetitoso. Pane e cazzilli, sfinciuni e pani e panelle non stuccano, eh, nemmeno dopo un po’. Allora via a invadere i dubbi mercati per tamponarsi con le arancine, o a catafottersi in posti tipo I Cuochini di via Ruggero Settimo. Se la cucina ha un rapporto rilassato con gli ingredienti è più attraente, infatti mi piace quella di Palermo, il cui ruolo di posto beneficiato dagli dei è fuori discussione. E sorvolo sulla quota di pasticcerie non colesterolo friendly ma buone impestate: Scimone, Spinnato, Costa, La Gubana, Oscar, Macrì, Mazzara, Cappello. Chiudom con Patrizia Di Benedetto del Bye Bye Blues , la donna che dopo 30 anni ha riportato la stella Michelin in città.
(⇓) BOLOGNA.
Il famoso quotidiano nazionale in edizione bolognese non si è fermato nemmeno davanti alla lesa maestà. Contestare la qualità dei tortellini di Tamburini, per di più nel proficuo periodo di Natale 2010, è il segnale che a Bologna non si salvano più nemmeno le istituzioni. Le alternative esistono, Simoni in via Drapperie, la salumeria di via Oberdan, e qualche trattoria resiste (all’Osteria Bottega: tortellini che levati, una versione della tagliatella, si metta a verbale, da altare votivo, parmigiani e lambruschi della felicità), ma le rivelazioni mancano da anni, o era decenni? Evito le imprecisioni impastate di pregiudizi ma non basta Eataly, per di più in versione ridotta, a risollevare le sorti della città un tempo goduriosa. Se trovate che sia il caso non privatemi di una smentita.
[Crediti | Link: Dissapore, Porzioni Cremona. Immagini: Dissapore]