Proprio come un altro classico napoletano, cioè l’ampolla del sangue di San Gennaro, la pizza potrà anche essere una questione di semplici leggi chimico-fisiche eppure mantiene un’aura tra il religioso e l’alchemico.
Per ragioni piuttosto insondabili, una pizza ben fatta rimaneva introvabile a Milano: comprensibile quindi l’attesa intorno a Dry, in via Solferino 33.
L’apertura ufficiale è stata venerdì scorso, 28 giugno, e solo chi non sia al corrente del mio nuovismo patologico (niente, non compare nel DSM-V appena uscito) potrebbe immaginare che io non fossi lì già quella sera.
Oltre al team di soci, Dry ha in comune con Pisacco, sull’altro lato della strada, l’estetica di fondo: soffitti alti, toni di grigio, chic post industriale, pareti quasi nude.
Dalla strada si entra nella zona bar: al bancone il barman Guglielmo Miriello, ritornato di fresco da Shanghai, si dedica alla preparazione di cocktail in stile speakeasy con gesti soavi da prestigiatore. Pare venga servita una pozione magica, idea che non apparirà più stravagante dopo un paio di French 75 (London dry gin, succo di limone, zucchero, champagne, in carta a 10€) .
Imboccando l’ampio corridoio alla destra del bar si arriva alla pizzeria, passando di fianco alla cucina (si ha facoltà di rendere brevemente omaggio al forno, arrivato direttamente da Napoli e provvisto di lungo pedigree, e magari di fare un cenno di saluto al pizzaiolo Simone Lombardi).
La sala ha quasi 100 posti ma non è immediato accorgersene: essendo più ambienti collegati tra loro, l’atmosfera rimane ragionevolmente intima nonostante l’estensione.
Nella prima parte della sala un coup de théâtre: una struttura in ferro unisce 11 sedie, ciascuna con il suo piccolo tavolino. Si tratta di una sorta di “tavolo comune” destinato a chi voglia condividere il pasto con degli sconosciuti ([voce da speaker] nuove forme di socialità in una città avara di sentimenti o occasione di rimorchiare migliore dell’Esselunga di viale Papiniano? Il dibattito nei commenti).
Il menu cita e reinterpreta l’idea del non-menu di una pizzeria qualsiasi: le scelte sono limitate, oltre alla pizza solo qualche insalata e il gelato.
La scelta è tra Marinara (5€), Margherita (7€) e Margherita con Bufala (8€), da completare, volendo, con ingredienti come Prosciutto crudo di Parma 24 mesi (4€), Cipolla brasata (2€), Capperi e Origano (4€). In alternativa, le pizze dello Chef: la Scalogno al sale, con provola affumicata e pomodorini arrostiti (10€) è dolce e aromatica; mentre la Pomodoro, Fior di Latte e Acciughe del Mar Cantabrico (9€) unisce la dolcezza dei pomodori e della mozzarella alla sapidità delle acciughe.
Buonissime, in due ne mangiamo tre (una basta per saziarsi, in realtà. Ma il giornalismo gastronomico è la mia elaborata scusa per satollarmi).
Nel resto del menu solo quattro insalate, come Scarola, crema di nocciole e ricotta, pesche (10€) o Insalata di Pomodori cuori di bue al basilico e croccante di focaccia al grana padano (10€).
Per finire il pasto solo gelato fatto in casa: pistacchio, vaniglia o fior di latte (2,5€ a pallina) .
Il caffè che accompagna l’affogato viene servito in un recipiente grande come un ditale, agganciato alla coppa: piacerà a coloro che sono sensibili all’estetica del carino.
Da bere, alcune birre artigianali (tra i 5 e i 10€), bibite Fever-Tree (5€), nettari di frutta. Oppure vino: la piccola carta è stata composta con saggezza in base al potenziale di abbinamento con la pizza, e c’è anche un po’ di Francia.
Se doveste mai seguire un solo mio consiglio, fate che sia il seguente: la pizza è perfetta con lo Champagne. (In realtà quelli sul cibo vanno tutti ragionevolmente bene. Non chiedetemi consigli relazionali però).