Sono andato a mangiare all’Osteria Francescana, il ristorante di Massimo Bottura che è il primo cuoco del mondo o il quarto, scegliete voi, e cerco di scrivere qualcosa di sensato a riguardo.
Dico cerco perché sulla cucina dello chef modenese — basta gugolare un momento — tutti hanno voluto dire qualcosa. E’ una di quelle esperienze un po’ più grandi di te, che ti fanno esprimere opinioni nette e affilate nel tentativo di interpretarle.
Succede, invece, a volte, di trovarsi davanti a una cosa forte, ne percepisci la grandezza senza riuscire a spiegare ciò che d’istinto definiresti sublime. Ma sublime è un giudizio impalpabile per me che sono una persona concreta, uno che si picca di voler definire le percezioni sensoriali. Allora mi avventuro nella descrizione piatto per piatto.
LO SCOGLIO. Un pane al nero di seppia cosparso di polvere di alghe e ricoperto con una crema di cozze e vongole. Ouverture perfetta. Mentre il sapore di mare si assesta in bocca noto la dissonanza tra le temperature. Due bocconi di goduria pura e il primo indizio della genialità di Bottura, una crema dal sapore così intenso che potrebbe cavarti i denti fuori dalla bocca. Ma aspetto, è solo il primo piatto.
RICOSTRUIRE UN CANNOLICCHIO MEGLIO CHE IN NATURA. Un piatto perentorio, un botturismo estremo. Il nome suona presuntuoso ma che il cannolicchio sia effettivamente migliore di quello vero è la semplice verità. Si mastica con piacere, la cottura è millimetrica, la consistenza invitante. Il carapace ricostruito è un croccante di alghe completamente disidratato che si disintegra in bocca in un amen. Briciole di pane tostato, clorofilla, aromi che si incastrano a ruota fino al pestaggio sensoriale della salsa di cozze nascosta sotto il guscio. Acidità bilanciata, portante sia salmastra che dolce, crema corpulenta che tutto avvolge, l’elemento croccante, il sapore amarognolo dell’alga.
BACCALA’ IN UMIDO. Un piatto in apparenza banale ma che rivela l’essenza dello chef: un insieme di tecniche raffinatissime a iniziare dalla cottura. Per evitare che il baccalà si sfaldi, il calore è stato somministrato con estrema cautela a bassa temperatura, il risultato è una cottura sospesa tra crudo e cotto. Con il problema di dover inumidire l’interno del pesce rimasto asciutto perché il fuoco dolce non ha sciolto il collagene (il tessuto connettivo del pesce). La soluzione è un brodo carico di sapore fino all’inverosimile. Sotto il baccalà c’è un pesto di pomodori, non son riuscito a capire se secchi o confit, i capperi aggiungono pungenza e le briciole di pane tostato rugosità, definendo alla perfezione il corpo (texture) del piatto.
RISOTTO MANZO, MELOGRANO; RICCI DI MARE E TARTUFO. Risotto incoerente, con ingredienti in apparenza inconciliabili. Ma lo chef si prende la briga di armonizzare fondo di vitello, melograno, tartufo e riccio di mare. Un’iperbole paradossale, un gioco di contrasti che di abbatte sul palato con la forza di uno tsunami. Assume quasi un significato filosofico sulla convivenza armonica dei diversi. Cottura del riso calibrata e (ancora) concentrazione dei sapori.
UN’ANGUILLA CHE RISALE IL PO. E’ già stato detto, un piatto studiato al millesimo per dare un’esperienza sensoriale completa. Anguilla opulenta, aroma della laccatura al balsamico retro-nasale, salsa di mele spiccatamente acida che compensa l’unto, cipolla bruciata per aggiungere amaro, infine la polenta, finissima, molto viscosa, che ha il compito di attaccarsi al palato ripulendolo dalla precedente bufera di sapori.
SCARPETTA. Lumache di mare, brodo di pesce concentrato e aria di limone. Nel piatto c’è anche un piccolo panino di radici prima cotte, poi disidratate e polverizzate. L’invito è evidente: spezzare il pane e fare la scarpetta sulla salsa. Un piatto che scherza con la tradizione romagnola di riciclare i brodetti di pesce da un tavolo all’altro. Il brodo come al solito è molto concentrato, a giudicare dal colore è stato prima emulsionato e bilanciato, riesce comunque ad esaltare le lumache ancora turgide, mentre l’aria di limone lascia leggeri profumi di agrumi. La gamma di percezioni sensoriali è completa: acido con il limone, leggero amaro con il pane di radici, dolce con le lumache, sapido in modo dirompente con il brodo di pesce concentrato.
MUCCA AL PASCOLO. Linea di confine tra il mare e la terra, ha il compito di azzerare il palato predisponendolo ai nuovi sapori. Piselli, fave e asparagi sono cotti per qualche millesimo di secondo, l’immersione nel verde avviene grazie a tre consistenze: verdurine solide e croccanti, un brodo verde, liquido e astringente, una polvere di piselli congelati. Ha una bella pretesa, metterti in bocca il sapore del pasto di una mucca. Anzi due, pretende perfino di incorporare il gusto di quel che la mucca restituisce. Quindi al centro c’è una cagliata di parmigiano in calzoncini corti, un parmigiano che ancora parmigiano non è, ma già con il carattere di quando sarà grande. A far da spalla, una panna affiorata con bacche di pepe di Sichuan in infusione. Il palato è fresco, sono pronto per la detonazione successiva.
CONCENTRAZIONE DI UN OSSOBUCO. La quarta dimensione del risotto alla milanese con gli elementi classici organizzati in modo inverosimile, ma va benone così. Due brodi: un fondo bruno di vitello con midollo, ovviamente ultra concentrato, accanto a un altro di manzo, chiarificato e profumato da stimmi di zafferano. Il riso viene prima cotto nel brodo di ossobuco, poi asciugato, quindi disidratato, infine fritto. Il risultato è un riso soffiato croccantissimo da raccogliere con il cucchiaio insieme ai brodi. Attenzione, è Bottura in persona, con un bricchettino, a versare il riso direttamente nel piatto. Perché non farlo arrivare dalla cucina? Non deve avere il tempo di impreganrsi di liquidi altrimenti la consistenza cambia, mentre il corpo, la texture generale del piatto prevede quella consistenza, non altre.
BOLLITO NON BOLLITO. Altro piatto che fa vedere delle cose, che fa vivere delle esperienze. Presentato con un’affermazione perentoria: “la tradizione non ha rispetto per gli ingredienti”, e di conseguenza, risolto con una tecnica semplice quanto geniale. Cuocere un pezzo di carne dentro l’acqua significa strizzarne fuori il 90% del sapore, così si prepara un ottimo brodo, non un bollito. In un grande bollito la carne dev’essere succosa, solo il collagene va cotto a puntino e sciolto in gelatina. Per cui bisogna cuocere la carne sottovuoto a temperature inferiori a 70°C. per un tempo molto lungo. Il risultato è un colore rosso intenso e invitante, distante dall’ospedaliero grigio-marrone dei bolliti tradizionali. La cottura lunga degrada il tenace tessuto connettivo della carne trasformandolo in gelatina succosa.
I diversi tagli, dalla testina al cotechino — teneri come burro eppure compatti — sono cotti con tempi diversi per preservarne carattere e consistenza. Il brodo è forte, con un gel di peperoni in superficie dal sapore molto intenso. Forse anche i peperoni sono stati cotti a bassa temperatura per ricavarne un’emulsione. C’è una schiumetta verde che incorpora toni erbacei, mentre dei piccoli capperi sul fondo puntano diritti al centro del gusto.
MAGNUM DI FOIE GRAS. Consistenze solide, semi solide e liquide. Percezioni di amaro, dolce, sapido, acido e umami a ogni morso. Gli oli essenziali di mandorle e nocciole prendono forza grazie alla tostatura aggiungendo aroma retro-nasale a un set di abbinamenti difficilmente migliorabile. L’aceto ripulisce i peccati del viscoso foie gras, nel frattempo, la granella di frutta secca scoppietta sotto ai denti e irrobustisce la carica aromatica. Masticando meraviglia fino all’ultimo boccone viene naturale ripensarsi bambini alle prese con il gelato croccante al cuore di amarena. E ti riscopri nella stessa situazione: con uno stecco in mano.
Si può dire di trovare naif l’approccio di Bottura, che viene da te, si china sul tavolo per completare il piatto e poi lo spiega raccontando gesticolante una storia, mai la tecnica. Ma è il solo comportamento sensato, perché lo chef ti riempe di roba ingombrante, ti turba, e alla fine desideri solo una storia che confermi la tua impressione: hai vissuto un’esperienza che va oltre l’alta cucina.
Bottura ha una mente pop, sceglie volutamente di ricreare sapori sedimentati nel nostro subconscio usando ingredienti insospettabili. E in questo, credetemi, non è il quarto, ma il primo cuoco del mondo.