Amici e conoscenti del nord, in numero non trascurabile, mi parlavano assai bene della cucina di Ilario Vinciguerra, chef napoletano che ha girato il mondo (Germania, Francia, Belgio, Svizzera nonché il Louis XV di Monaco, ma non dimentichiamo il Don Alfonso) prima di stabilirsi a Galliate e poi traslocare a Gallarate, conservando nello spostamento di sede la stella Michelin.
Ricordo nitido della mia prima visita da Vinciguerra: il curvone a gomito dell’uscita autostradale di Gallarate, uno spaghetto che si rivelerà per distacco la peggiore portata del giorno. Del posto precedente mi dicono fosse angusto, qui mi ritrovo in una splendida villa liberty all’interno di un parco, eppure pochi metri prima c’era l’indistinto grigiore urbano; un luogo che invoglia a ritornare nella bella stagione, con lo stimolo ulteriore di un menu che cambia quasi del tutto ogni due mesi.
A pochi metri dall’ingresso resto sbalordito da una parete piena di bottiglie di grappa di Romano Levi, mitico maestro distillatore scomparso non molti anni fa, le cui creazioni sono contese a caro prezzo dagli appassionati. Mentre cerco di riprendermi, mi accomodo in una sala luminosa, i tavoli distanti, gli arredi moderni e raffinati al tempo stesso.
I percorsi proposti sono tre, due menu degustazione di sei portate –uno con le novità l’altro con i piatti storici– a 80 euro e uno di otto piatti a sorpresa a 95, più una proposta per il pranzo dei giorni feriali decisamente competitiva: due piatti e un calice di vino a 35 euro. I prezzi alla carta restano comunque ragionevoli. Optiamo per il Menu Sorpresa e decidiamo di far accompagnare il benvenuto dello chef da un calice di Champagne di Bruno Paillard, mentre da una carta dei vini nella media della categoria per ampiezza e ricarichi scegliamo un Fiano 2008 di Marsella. Giungono nel frattempo pani, pizzelle e panzerotti fatti in casa, e a rubare la scena è il casatiello.
Dopo gli stuzzichini d’ordinanza, iniziamo il nostro viaggio con Profumo, piatto che nel 2007 ha portato Vinciguerra alla ribalta, risultando vincitore del concorso “Lo mejor de la Gastronomia” di San Sebastian, in Spagna, per il miglior piatto all’olio d’oliva. Racchiusi in una cupola di plastica trasparente ci sono una tartare di gamberi con olio extravergine di oliva e fiori eduli, mentre la base della sfera contiene del gin tonic. Le istruzioni annesse dicono di aprire la sfera, annusare, agitare vigorosamente, degustare i gamberi e poi suggere il gin tonic con una cannuccia. Un piatto ricco di effetti speciali, con una ludicità che definirei scabiniana (da Davide Scabin, chef del Combal.Zero di Rivoli) e certamente ben studiato: l’olio extravergine si amalgama intimamente con i profumi del piatto, mentre il gin tonic rinfresca e pulisce il palato, dando al tempo stesso continuità olfattiva con il suo registro erbaceo.
Andiamo avanti con un fuori programma, una vellutata di patate con olio extravergine d’oliva, caviale e cioccolato bianco. Sono un po’ impaurito dall’accostamento, e mi astengo dal bere vino con una preparazione simile. Ma in realtà non andiamo male: il cioccolato bianco è preponderante, il caviale dà un contrappunto di sapidità e l’erbaceo dei germogli contribuisce all’armonia complessiva, mentre il contributo delle patate è essenzialmente di texture.
Nell’uovo cotto a bassa temperatura con pomodoro e aria di parmigiano, riservo la prima cucchiaiata a quest’ultima: impeccabile. Il purè di pomodoro, viceversa, è piuttosto aggressivo, forse andrebbe accoppiato a sapori più forti, visto che riesce (parzialmente) a tenergli testa solo la tostatura delle noccioline.
Proseguiamo con carne cruda, kumquat e foie gras, un piatto primordiale, che ci fa ritornare cacciatori/raccoglitori e che giustamente viene suggerito di mangiare con le mani. Il gioco di densità è perfettamente riuscito, l’amalgama di sapori in bocca risulta assai stimolante; il foie gras a inizio boccone quasi non si percepisce, ma entra in scena nel finale come ineccepibile contrappunto.
La sfogliatella di baccalà mantecato con peperoni in agrodolce è un piatto confortante, pieno di sapori immediati, intensi e persistenti, da gustare voluttuosamente fino all’ultimo; il contrasto tra i peperoni e il baccalà vede i primi vincitori, ma sono sfumature.
Altro piatto estremamente rassicurante, goloso e ricco di sapori sono i fusilli con trippa di baccalà e fonduta di pomodorino del Piennolo, dimenticare la latitudine a cui ci troviamo è la logica conseguenza.
Un napoletano che viene in Lombardia a mantecare il risotto con l’olio extravergine invece del burro suona quasi come un milanese che prepari a Roma la carbonara con la panna; ma in realtà questo risotto alle mele annurche e polvere di capperi di Pantelleria è uno dei piatti migliori dell’intero pranzo. L’uso dell’olio extravergine sacrifica un po’ di consistenza ma a deciso vantaggio dell’eleganza, il risultato è un piatto dalla carica aromatica fuori dal comune, estremamente raffinato ed armonico pur in presenza di incontri sulla carta assai arditi, come lo è quello tra la mela e il cappero.
Niente effetti speciali, ma tutta sostanza, per il pagro con prugne e salsa al lemongrass, di estrema piacevolezza e rinfrescante in chiusura.
Piatto davvero interessante è il cannolo di totano con carote e gocce di caffè. Pur nella sua arditezza, trova il filo conduttore nelle sfumature fumè che risultano piuttosto accentuate e caratterizzanti, e al palato troviamo una grande complessità di sapori che non si scavalcano.
Assai gustosa risulta la guancetta di vitello con spuma di cavolo, riso soffiato e liquirizia: particolarmente felice è il matrimonio tra la carne e la liquirizia, mentre il contributo del riso soffiato risulta decisivo in termini di consistenza, mantenendo alto l’interesse e rendendo più divertente la degustazione di un piatto ben pensato e ben eseguito.
Il predessert è un altro piatto celebre: l’Oro di Napoli, una pastiera sferificata ricoperta da una sottile sfoglia d’oro alimentare. Ci troviamo di fronte a un’altra ricetta assoluta, in cui c’è tutto: un gusto straripante, tradizione, tecnica, passaggi di stato, giochi di consistenze, aspetto ludico ed eccitazione visiva. Memorabile.
A chiudere le danze, gelato e latte di mandorla su composta di rabarbaro. Dessert rinfrescante dopo alcuni piatti pieni di sostanza (un’alternanza azzeccata), caratterizzato dalle note amare, solo sfumate dalla frutta secca.
Giunti al termine di questo percorso, il primo pensiero è che, al netto delle esperienze in mezza Europa, l’anima napoletana dello chef si sente forte e chiara, ed è la luce che illumina i suoi piatti, scoprendo una cucina ricca di gusto, più di gola che di testa, rassicurante anche quando complessa, alla ricerca –in genere con esito fausto- della piacevolezza estrema, che mette di buonumore per colori, odori, sapori.
Se un piatto d’alta cucina, per essere grande, deve avere un’armonia in cui tutti gli ingredienti sono perfettamente percepibili e in equilibrio fra loro, questo non sempre accade nella cucina di Vinciguerra. Ma è un appunto che rimane tutto sommato a margine, in una cucina di assoluta gradevolezza che parla al cuore e allo stomaco prima ancora che al cervello.
[Crediti | Immagini: Fabio Cagnetti, Varese Press]