Prima far parlare e poi provare. Parafrasando la regola aurea di Dissapore, ieri sono andato a provare gli spaghetti al pomodoro di Papà Francesco, intrigato dai commenti di Paolo Bonomo, figlio di Augusto e contitolare del locale: “E’ chiaro che una spaghetti espressa avrà un sapore diverso da una spaghetti riscaldata la microonde”, e ancora: “fare chiarezza significa far conoscere al cliente finale le modalità di preparazione dei piatti che si accinge a mangiare”.
Papà Francesco gode di una posizione invidiabile e preoccupante, potrebbe essere la classica trappola per turisti, con il suo dehor a pochi metri dal Teatro alla Scala di Milano, e in effetti ieri a pranzo, complice la data, ai tavoli si poteva sentire un mix di spagnolo, greco, francese, russo, oltre a ogni improbabile accentazione dell’inglese. Ma effettivamente gli spaghetti al pomodoro, oggetto paradigmatico dell’ormai famoso cartellone commissionato dalla famiglia Bonomo a un amico vignettista, sono arrivati al mio tavolo con un punto di cottura di rara perfezione, con una salsa di grande equilibrio e semplicità. “Sono come li mangeresti a casa, se a casa sai fare dei buoni spaghetti”, mi è venuto da dire.
Buono il tonno affumicato scelto come antipasto e ottima la zuppa di cozze e vongole dove l’evidente lavoro della cucina non soverchiava la freschezza dei molluschi. La leggerezza del Tiramisu home made confermava una buona mano: pan di spagna al posto dei savoiardi, un giusto punto di dolcezza non stucchevole.
Con una bottiglia d’acqua, un calice di vino bianco (Rastal, seppur marchiato da un produttore) e -ahimé, vexata quæstio– un coperto di 3,50 euro, il conto ha sfiorato i 60 euro. Offerto il bicchiere di mirto in chiusura a ricordare le origini sarde della famiglia, così come mi è stato regalato un filone di pane dopo che mi ero complimentato per la sua qualità, scoprendo che i Bonomo il pane se lo fanno in casa.
Insomma, non regalato il pranzo completo da Papà Francesco, ma si tratta di un ristorante vero che non cerca di approfittare di una rendita di posizione: le cucine sono affollate e il servizio è sollecito, cortese e non di maniera, l’affitto salato. C’è attenzione e competenza, c’è attenzione alle materie prime impiegate, che senza addentrarsi nelle nicchie dei presidi Slow Food (per questi ci sono altri luoghi e altri pubblici) cercano di rappresentare in modo veritiero la cucina italiana tradizionale, piezz’e core compresi, per restare in argomento con quanto dicevamo ieri: il ristorante pubblica infatti sul suo sito una Carta dei Servizi dove si legge “La domenica e i festivi sono tutti dedicati alle famiglie con bimbi, con la tranquillità per i genitori che questo non arrechi fastidio alcuno”.
Dunque, non è sempre vera la regola matematica che vuole la qualità di un ristorante italiano inversamente proporzionale alla vicinanza del centro storico, moltiplicata per il fattore T (indice di affollamento turistico). Di sicuro, invece, nei bar della Galleria o attorno al Duomo, paste precotte e passate al microonde non costano meno di uno spaghetto espresso, ma lasciano senz’altro un ricordo diverso.
Ben vengano dunque guide e blog che offrano al turista informazione vera capace di orientare scelta informate. E ben vengano, questo per ora è solo un auspicio, purtroppo, ristoratori consapevoli che costruiscano prezzi onesti, spalmando nei loro piatti le solite voci, oggetto di troppo contendere. Altrimenti coperto, servizio e acqua, spesso carissimi, al pari dei famigerati ricarichi di RyanAir, allontaneranno potenziali clienti sempre più sospettosi.
PS. “e che c’entrano in tutto ciò le guerre tra ristoranti e bar”? Beh, in realtà quel bel pasto completo -antipasto-primo-secondo-dolce-caffè-ammazzacaffè-acqua-e-vino- ce lo siamo mangiato in tre, un piatto a testa. Per 20 euro each abbiamo mangiato bene, trascorso oltre un’ora seduti e comodamente serviti. Paragonato ai frettolosi panino-e-birra, beh, molto competitivo.