Neo Bistrot. E io che pensavo fosse una moda. Ne ho parlato così tanto negli ultimi anni da perdere il fiato. Ne ho parlato con grandi cuochi, giovani cuochi, critici gastronomici, amici competenti e ora sento di essere giunta ad una conclusione, la mia personale, che vado a spiegare. Partendo dal principio. Attualmente sono due i modelli di mangiatoia che si litigano l’attenzione del pubblico appassionato. Schierata da un lato c’è la generazione un po’ agé dei grandi ristoranti di lusso, quelli con le stelle, per intenderci. Si erge compatta in altissima uniforme, pancia in dentro – petto in fuori, elegante, austera, a tratti diffidente. Dall’altro lato invece ci sono i neo bistrot. Dinoccolati, giovani, radical e rock&roll ma sempre, rigorosamente chic.
Nei ristoranti di lusso la cura dei dettagli è vera e propria ossessione mentre la perfezione un obbiettivo da raggiungere e superare. Sono templi del buongusto dove la tavola, meravigliosamente apparecchiata, diventa altare sacrificale della tradizione, uccisa simbolicamente, resuscitata e poi sublimata nella visione del sacerdote, il cuoco, incastonato nelle cucine come il Minotauro nel suo labirinto. La carta dei vini è simbolo di magnificenza, di ricchezza. La varietà, le annate, l’importanza di alcune bottiglie ne determinano la struttura. E il peso.
Nei nuovi bistrot non ci sono sacerdoti. Ci sono cuochi pieni di tatuaggi (dico per dire, non siate pignoli), a loro agio tra i fornelli così come tra la gente. Hanno imparato tutto quello che sanno dai loro maestri, gli stessi signori di cui sopra, ma hanno cambiato idea, si sono adattati, sono mutati. Le lussureggianti tovaglie di fiandra si accorciano fino a sparire. Gli spazi sono piccoli, luminosi, ben arredati. Nelle cucine rigorosamente a vista si porta avanti un dialogo educato con la tradizione, il cui argomento principale sono gli ingredienti. Eccellenti, ricercati. I menù si sgonfiano e si trasformano in un unico cartoncino da rinnovare giorno dopo giorno, la possibilità di scelta diminuisce, le spese si abbattono, il conto si asciuga. Nella carta dei vini i giganti lasciano posto a piccoli produttori e, che piaccia o no, la parola d’ordine è naturale. Che piaccia o no l’ho detto?
Dapprima ho pensato che i neo bistrot fossero una moda, di quelle che dagli tempo e si sgonfiano da sole. In una fase successiva, affascinata dal fenomeno in crescita esponenziale, ho creduto che le due realtà potessero convivere e, hai visto mai, dialogare. Ora temo che i neo bistrot siano l’evoluzione più naturale dei grandi ristoranti e che questi ultimi, per come li conosciamo, abbiano le ore contate. Affermazione forte? Lo so, è una provocazione.
Il punto è che questa mutazione trova la sua ragione d’essere nel bisogno di ridimensionamento sociale, economico, ma non culturale. Un ridimensionamento, diciamo, auspicabile, dove la perdita del lusso non compromette una grande esperienza gastronomica e, credetemi, non la compromette davvero. Sì, c’è meno scelta. Ok, si mangia più vicini ai commensali a fianco. D’accordo, ci sono meno portate e non c’è la tovaglia, ma è a misura d’uomo, l’uomo vagamente bohémien interprete di questi sfigati tempi moderni.
Credo che l’avvento dei bistrot sia un processo piuttosto irreversibile, tutt’altro che una moda passeggera, e chi tra i grandi cuochi saprà reinventarsi e interpretare al meglio questa tendenza, cavalcherà un’onda innovativa che promette di stupire.
Ora smentitemi, con calma, dignità e classe (cit.).
[Crediti | Immagini: Sigrid Verbert, Carmelita Cianci]