Si bisbiglia di una cucina stretta e lunga mentre attendiamo le solite ritardatarie. Curiosiamo la carta appesa fuori e gli scambi sommessi tra chef e brigata dalla finestra semi-aperta. Arriva la “bella gente”, macchinone bianco in divieto, sex appeal che latita e noi a far da ostacoli al parcheggio selvatico (hashtag #pirla). Sboroni ad alta voce in giacca blu bottoni oro. Un cane abbaia stanco, lasciato solo dentro l’auto in attesa nel parcheggio. Veranda impolverata con cassonetto d’ordinanza. Stradone trafficato. Esterno notte, periferia. Chiesa di paese.
Amen.
Siamo a San Pietro all”Olmo, frazione di Cornaredo, ovest di Milano. Siamo qui, di fronte alla rivoluzione, l’insurrezione e la disobbedienza. L’eversione della cucina creativa, dello chef sborone che alza i prezzi perche’ le materie prime e perche’ gli investimenti e perche’ la creativita’ e perche’ siamo tutti in regola e piripi’ e piripo’. Ma pagheremo comunque i nostri settantasette a testa, anche se con centosedici per due bottiglie di vino.
Da Oldani paghi il giusto, confermato. Magari evitiamo l’etichetta di low-cost che e’ eccessiva.
Naturalmente i bicchieri obliqui risplendono di fascino, il cubo di pelle inutile crea interrogativi da fumetto e la posata tutto fare ci rapisce. Ma non ci piace. O meglio: ci piace molto e ci incuriosisce anche di piu’ ma e’ scomoda come una madonna … per mangiare, che_ne_so_per_esempio, la cipolla caramellata con le diverse consistenze di grana, pardon: parmigiano.
No problem, abbiamo gusti strani e incontentabili. Alla fine siamo sette cagacazzi, ma illuminati. Infatti non incolpiamo la beata ignoranza della signora senza sex-appeal se la toilette da’ direttamente sul nostro tavolo (pero’ chiudi la porta, ignorante).
Il tono e’ questo, osteria bella ma un po’ piccola e rumorosa. Ci si impegna in brigata e in sala.
La cipolla dunque: mito di gioventu’ e architrave della cucina del D’O, elemento fondante del manifesto del locale. E’ dolce ma, intelligenti come siamo, ce lo aspettavamo. Ha le sue punte di salato. Che sono decisamente poche, dimodoche’, complice un po’ di rabbietta per la posata assurda, dopo meta’ ne hai le palle piene. Arriveremo tutti in fondo, ma in parte scontenti. Stavolta siamo quasi tutti risonanti, troppo dolce.
In tema di dolce: arriva una composizione bella da vedere con gorgonzola, mascarpone e pan di spagna … leggerissima “al peso”. Un macigno da deglutire, sapore troppo, troppo, TROPPO grasso. Metti_tipo_non_so un foie-gras con spalmata una mano di crema di mascarpone. Lo lasciamo, ma non per snobismo, proprio perche’ non si riesce a mandar giu’. Peccato sembrava anche una buona idea.
Vedono la nostra scarsa prestazione e gentilmente_prontamente_dolcemente rimediano con una bella macedonia in gelatina con sorbetto al basilico. E’ bella fresca e il contrasto con il mattone precedente farebbe sembrar buona anche la miniatura del duomo di Milano fatta di burro acido. Ma siamo comunque contenti.
In mezzo e’ passata una cena godibile e a tratti emozionante, con le animelle e le interiora (su espressa richiesta/proposta), a riposare sulla robusta coda di vitello. A tratti meno: con la trippetta di pesce, la cui consistenza mi infastidisce, ammollata dentro un bel risottino.
Recentemente, un caro collega, mi ha spiegato la differenza tra due espressioni romanesche che noi scimmiottatori polentoni utilizziamo senza alcuna cura. Differenza che, si badi, ha gia’ causato ben piu’ d’una crisi diplomatica. “‘Stiqatsi” e “‘stoqatso” … la prima, tra l’altro, gia’ vituperata dal circuito dei media mainstream.
In breve: ‘stiqatsi, spesso preceduta da “eeeee….”, verrebbe utilizzata quando il romano intende sottolineare estraneita’ di interesse all’argomento, la seconda rimane invece a testimoniare grosso accento e meraviglia.
Ho provato a chiedere al collega cosa ne pensasse del D’O ma una telefonata urgente me l’ha portato via improvvisamenteeeeeeeeee….