La cucina e il credo del ristorante di Davide Oldani, Il D’O di Cornaredo, in provincia di Milano, si potrebbero riassumere leggendo il menù degustazione. Quattro portate, più la classica “entrèe”, a 32 euro, servizio e coperto inclusi. Beninteso, non è il prezzo che fa il ristorante, ma qui parliamo di alta cucina (e non potrebbe essere altrimenti quando ci si forma nelle cucine di Albert Roux, Alain Ducasse, Pierre Hermè e Gualtiero Marchesi) senza orpelli a prezzi popolari.
So di essere in ritardo quasi imperdonabile, ma è la mia prima volta al D’O, la curiosità di capire il “sistema” Oldani è forte. Un ristorante sempre pieno, tanto che in Europa solo a El Bulli di Cala Montjoi, il locale di Ferran Adrià, si hanno le stesse difficoltà per prenotare un tavolo.
Il menù con i prezzi, esposto all’esterno del ristorante, mi sembra un segno tangibile di grande civiltà.
La prima cosa che sorprende è l’ambiente, nel senso che conoscendo la storia di Davide Oldani, te lo aspetteresti più raffinato. Invece hai l’impressione di essere capitato nella classica trattoria padana, con le pareti dipinte di giallo paglierino, il finto cotto come pavimento e le sedie impagliate, compreso, per completare il quadro, l’eccessivo rumore di fondo causato dalla quantità di persone stipate nella piccola stanza dove sono seduto.
Se questo è il prezzo da pagare per sedersi nel ristorante dal rapporto qualità/prezzo migliore d’Italia, allora mi taccio.
Continuo avvertendo una certa distonia, questa volta in positivo, tra l’ambiente e il resto. La causa è il personale del D’O.
Tutti ragazzi molto giovani ma di grande professionalità, e non troppo ingessati come capita nei ristoranti dove le pareti sono in resina, il pavimento in listoni di legno francese e le sedie di Kartell. Poi, quando dopo qualche minuto parli con Oldani, capisci che se sapesse solo cucinare non riuscirebbe mai a portare avanti il suo ristorante. L’impressione è di trovarti al cospetto di un cuoco moderno, un cuoco “manager”, che tiene abilmente sotto controllo costi e ricavi del suo locale.
In un unico aspetto, il D’O, cucina a parte, ricorda i grandi ristoranti, quelli dal registro un po’ serioso. Poco civilmente secondo il mio parere, non permette di fotografare i piatti a chi paga il conto. E sì, perché alcuni piatti andrebbero fotografati per ricordarseli.
La “Vellutata di legumi tiepida, cappelletti di curry e cioccolato” è roba fine, così come andrebbe fotografato per farne un poster da appendere alle pareti, il piatto con la “Lingua di maiale laccata, “buccine” di mare alla liquirizia”. Commetterò un unico errore al D’O. Mi farò incuriosire, vedendola servita al tavolo di fianco, dalla “Parmigiana caramellata, grana caldo e freddo” che ordinerò come fuori carta.
Chi come me ha fra i capelli il tipico “ciuffo” della melanzana, tante e indimenticabili sono le parmigiane – quelle originali – mangiate dalle mie parti, non riesce ad apprezzare questa versione, anche se di grana caldo e freddo ne avrei mangiato a oltranza. Dico tuttavia che nel menù la parola “Parmigiana” era volutamente virgolettata, proprio a indicare qualcosa di diverso da quella originale.
Il vino che mi ha fatto conoscere il sommelier del D’O, un merlot, Ronco Severo 2006, si è rivelato una buona scoperta.
Davide Oldani è il profeta dello chic senza fronzoli cui ogni giorno si continua a chiedere il buono (e il bello) ma che sia pratico e accessibile, un modello di ristorazione quanto mai attuale, difficilmente replicabile altrove almeno agli stessi livelli.