Con il governo tecnico si va tutti in pensione più tardi e Fausto Arrighi non fa eccezione. Tutti davano per certo il suo abbandono del ruolo di curatore della Guida Michelin, e invece eccolo lì a far cifra tonda: 70 anni di età, 35 a dirigere la Rossa. Per festeggiare, il megadirettore ha concesso una rara intervista corredata da un’altrettanto rara foto, al Corriere della Sera, che approfitta del contributo visivo –ritraente un ben conservato settuagenario– per farne una sorta di Sean Connery de’ noantri.
Nell’intervista, Arrighi dice alcune cose solo in apparenza banali: sostiene di tenere conto sia delle segnalazioni dei lettori quanto di quelle degli ispettori, e che i criteri per valutare un ristorante sono “cucina, accoglienza, ambiente e cantina”. Naturale che sia così, ma per trovare questa affermazione coerente con quella, sentita innumerevoli volte e palesemente in contrasto con la realtà delle cose, che “le stelle si danno solo alla cucina” bisogna un po’ arrampicarsi sugli specchi.
Altra sponda dell’Oceano, altro critico di preclara fama. Eric Asimov, lo dico leggendolo e ammirandolo da parecchi anni, è uno dei più capaci, esperti e geniali critici di vino mai vissuti. Un enostrippato spaziale, volendo strizzare l’occhio al celebre zio. Tuttavia si occupa di vino sul New York Times solo dal 1999 (e a tempo pieno dal 2004, praticamente ieri), mentre nei tre lustri precedenti ha scritto di lifestyle e, soprattutto, di ristoranti, divenendo celebre per la rubrica sui posti dove mangiar bene a New York City con meno di 25 dollari – bevande, tasse e mancia escluse, s’intende.
Per Asimov, il 2011 è stato l’anno del ritorno al passato, essendosi ritrovato nell’ultimo trimestre a ricoprire “ad interim” il ruolo di critico dei ristoranti, prima di passare il testimone a Pete Wells. E in questi anni, nella Grande Mela, sono cambiati i nomi dei locali e i piatti più à la page, gli ingredienti dei piatti sono meno esoterici di un tempo, ma l’enfasi sulla loro qualità e provenienza è massima. E se un ristorante va giudicato principalmente in base a ciò che esce dalla cucina, non si può prescindere dal soppesare il valore sociale di un pasto, cui l’atmosfera, il beat, l’X Factor del locale contribuisce in maniera decisiva.
Anche voi ammirate Fausto Arrighi ed Eric Asimov? Vorreste, un giorno, diventare come loro? Ma attenzione, le strade tracciate dai due guru si biforcano piuttosto rapidamente.
L’ispettore della Michelin è figura totalmente priva di immagina pubblica, avvolta nell’anonimato come un Touareg nella lana blu. Riesco a vederlo, questo signore distinto e un po’ tristanzuolo che arriva solo, si siede, ordina alla carta due e solo due piatti, ci va piano con il vino ché i rimborsi sono striminziti, paga e riparte alla volta di un altro dei 240 ristoranti da visitare durante l’anno. Un autentico forzato del macaron (per una volta non si parla di pasticceria: è un altro modo per chiamare le stelle) che gode di una serie non indifferente di privilegi, fra tutti l’essere degnamente retribuito per mangiare al ristorante, ma che non potrà condividere in pubblico le gioie e i dolori di un mestiere che a volte delizia il suo palato, più spesso lo fa vagare come un’anima in pena. E chissà se fra i fringe benefits è inclusa una fornitura di pneumatici della casa madre, per inciso i più cari in commercio: chi trova curioso il binomio Michelin-lusso non frequenta i gommisti.
Asimov ha un altro punto di vista. Riconosce che la tecnologia rende dura la vita di chi vuole restare anonimo, e che il critico deve scegliere quanto voglia esserlo; d’altra parte, un ristoratore intelligente lo lascerà passare indisturbato, che l’abbia riconosciuto o meno. Le portate fuori menu? Spezzano il ritmo del pasto e rendono più difficile l’analisi del ristorante. Altra sfida dell’era digitale è interfacciarsi con la quantità di discussioni pubbliche in materia di cibo: nell’era del 2.0, in cui i social network pervadono la nostra esistenza e lo smartphone è oggetto essenziale, chiunque può recensire un pasto in tempo reale, a prescindere dalla professionalità e dalla presenza o meno di secondi fini. Il professionista deve quindi avere un basso tempo di reazione, non può indulgere in tempistiche da giornalista cartaceo del Novecento e al tempo stesso deve resistere alla tentazione di competere con chi spara giudizi in tempo più o meno reale.
Due mondi, due visioni, un’unica missione: sacrificare parte del piacere di un pasto per comunicarne il resto, tutto il resto.
[Crediti | Link: Corriere Milano, New York Times]