Ci sono dolci per i quali si va pazzi, altri che possono piacere leggermente meno, altri ancora, pochissimi, che sono talmente buoni da risultare trasgressivi. E quando si parla di perversioni gastronomiche, come ben sanno gli amici gurmé, ognuno ha le sue preferite. Mi trovo una domenica mattina a Pontremoli, nella ruvida e verdemetallico Lunigiana. Sono arrivato fin qui per il premio Bancarella della Cucina: c’è il sole, la gente, ma di libri nemmeno l’ombra. Sulla piazza principale alcune bancarelle propongono buone cose, birre, gelatine e formaggi di Piozzo, tonno di Favignana, salumi di Cinta senese, testaroli e funghi locali. Tutto però, poco coinvolgente, stanco, un po’ posticcio e fuori luogo.
L’avevo già programmato, ma non mi resta che riparare nel Caffè Pasticceria degli Svizzeri, proprio lì, sotto i portici, col suo aspetto leggermente fané, ma signorilmente accogliente complice il calore dei suoi legni liberty, originali del primo Novecento. E’ un periodo che mi piace, specie la domenica mattina, fare sosta in un bar, prendermi un po’ di tempo intorno a un caffè e a una pasta. Forse un tardivo tentativo di volermi bene, di concedermi un piccolo vizio. E non c’è niente di più vizioso di un “Amor”.
Cos’è l’amor… è la Ramona che entra in campo, e come una vaiassa a colpo grosso, te la muove e te la squassa. Sicuramente i sogni erotici di Vinicio Capossela non si riferivano a questi amor, anche se effettivamente i miei amor, gli amor dello Svizzeri, sono piccoli dolci lussuriosi: 2 quadrati di 3 centimetri di lato di cialda tipo biscotto frufru a a racchiudere una crema pasticcera, la cui ricetta centenaria sembra sia, è il caso di dire, elveticamente segreta, ma che di sicuro prevede uova, burro e cognac, forse amaretto o china, un po’ di polvere di pan di spagna, in un impasto molto denso, grasso e di gusto dolcemente persistente. Ci sono dolci così buoni e ruffiani che pretendono dedizione, obbligandoti a gesti furtivi spinti oltre la decenza, sul filo della vergogna. Tanto da farti guardare intorno, quasi a sincerarti che nessuno ti abbia visto assecondare una segreta libidine.
Infatti addentare un amor è faccenda estremamente complessa perché per quanto friabili, le cialde di wafer non cedono al morso. La conseguenza è che la crema esce, “squizza”, deborda, tracima morbida e sensuale senza colature. E’ con malcelata rassegnazione che ci si adopera per riprenderla, ripianarla, recuperarla con ogni mezzo, labbra; lingua; dita… velocemente, precisamente. Scandalosa cialda.
C’è chi li chiama àmor, chi amòr? Ritirando il pacchettino da portare a casa, chiedo quale sia la pronuncia esatta. “E’ lo stesso”, risponde la signora sbrigativa, svizzera, freddina e forse un po’ tediata. Non ne potrà più degli amor, penso io, quasi in un moto di incredulità finto-distaccata. Mentre mi lecco un dito decido di propendere per àmor, con l’accento sulla “a”, alfa privativo che precede “mores”, cioè regole, buoni costumi, moralità: dolci senza regole, senza morale, quindi. Scostumati, goduriosi, pimpanti… ahi, permette signorina sono il re della cantina…