Puoi superare i trent’anni senza mangiare al fast food e farla franca. Sei di quelli antipatici nati nei Settanta, il social forum e la tessera di Slow Food, che visitano i Mc solo quando sono in viaggio e vogliono trovare un bagno gratis, ma gli amici ti vogliono bene lo stesso. E poi diventi un genitore. E per un po’ ci provi con le verdurine dell’orto, il pane con l’olio, la tv spenta. Ma già nei corridoi dell’asilo i ragazzini spacciano informazioni tipo “pangocciole”, “happymeal”, “chupachups”. Allora temi che il fascino del proibito abbia la meglio e decidi di portare la famiglia, una volta, al Mc. Vicino a casa mia c’è un McDrive, sul raccordo autostradale. Penso che il sabato a mezzogiorno, con un bel sole tiepido, saremo gli unici idioti usciti di casa per pranzare lì, nel posto più brutto della città più bella del mondo, Firenze per gli invidiosi; basta scavalcare il guard rail e iniziano le colline, e soprattutto le botteghe di schiacciate e affettati, le trattorie e ogni tipo di mangiatoia, e che un genitore porti i figli a pranzare fra il distributore di benzina e gli scarichi dei bus, non so, mi sembra impossibile.
Penso male.
Pochissimi sono di passaggio, chi si infila nella corsia “drive” con la macchina poi parcheggia dieci metri più avanti per sbriciolare sui sedili, e molti sono lì per sedersi con i bambini pregustando un delizioso pranzetto familiare. Come noi, no? Accaparrato il tavolino all’aperto con vista benzinaio, butto un occhio sul menu appeso e mi sento a mio agio come un’astemia davanti alla carta dei vini di Pinchiorri (noto ristorante fiorentino).
Non ho capito nulla di menu, omaggi, bibite da scegliere, e le ragazze alla cassa sono così fast e silenziose, e la fila scorre veloce, e io devo sfamare la famiglia… Ricordo le indicazioni di amici e parenti, biascico una frase con parole tipo happyqualcosa /menu/big, rispondo a casaccio alle domande e magicamente ottengo due vassoiate di pacchetti e bicchieroni.
Per circa 15 euro.
Mi rilasso, mi siedo e distribuisco le scatole. Quindici euro. Tutti mi dicono che vanno a mangiare al Mc con i bambini perché la crisi, perché chi ce l’ha i soldi per il ristorante, e ormai anche una serata in pizzeria è una rapina, e dove puoi sederti e mangiare con un ventino. Intanto entrano ed escono genitori con borse e occhiali che costano come due cene da Bottura (noto ristorante modenese).
Mia figlia, neanche cinque anni, che sembra Trilli ma a tavola somiglia più a Ugo il Camionista, tutta contenta inizia a scartare l’èppimì. Un cartoccio di patatine un po’ flaccide, un hamburger, una barretta Nestlè (oddio! La multinazionale! Boicotta, boicotta!), e da bere un secchiello per il ghiaccio spruzzato di cocazero. Ma soprattutto un pipistrello di stoffa, e comincio a intuire che siamo lì per quello. E-p-p-u-r-e. Dappertutto, in ogni angolo libero dello scatolame, tabelle, valori nutrizionali, e come è italiana questa carne, e occhio alle calorie, e il caffè lo facciamo senza pesticciare le foreste. Intorno a me ci sono famiglie oversize che incitano i bambini sovrappeso a finire l’ultimo boccone di panino e non mi sembrano interessate a sapere quanti grassi saturi hanno mangiato.
Ma dico: se vengo qui mica sono a dieta o voglio mangiare biodinamico. Però le patatine devono essere buone, anche se mi trapassano il fegato. Se fate panini, la carne dev’essere goduriosa, m’importa assai da dove viene, e il pane può essere pieno di intrugli chimici, purché mi piaccia. Avvelenatemi, siate ruffiani, ma fatemi mangiare bene.
Invece niente.
Tutto mi pare inutilmente salato o dolciastro, molliccio, triste. Mi vengono in soccorso le riflessioni delle mamme accanto che infilano pezzetti di quasipollo fritto in bocca ai bambini. “Dice che a mangià questa roba fa male”. “Vabbè, icché c’entra, ma anche se mangi la nutella tutti i giorni ti fa male” “Eh… lo so, ma qui gliè tutto un problema della globalizzazione”.
Ugo il Camionista tenta qualche morso, anche perché ci ha trascinato lei qui e lo sa, si riempie il pancino di coca ghiacciata, ma poi si ritrasforma in Trilli, c’è il pipistrello da lanciare, e lo scivolo accanto ai tavoli da fare dieci volte, senza scarpe. Allora ho capito. Qui si viene con la famiglia per non litigare. Non sentirai mai dire “stai a sedere! Mangia con la forchetta!”. Qui si viene per lasciar giocare i bambini, bere qualcosa di gassato e freddissimo e, incidentalmente, mangiare qualcosa.
Non so, per 15 euro mi pare troppo lo stesso.
Certo, puoi comprare un panino con 1 euro, ma un bicchiere di aranciata 2 euro e 70? Il panino di Trilli rimane sul tavolo appena morsicato e nemmeno suo padre, il donatore di geni mangerecci, riesce a finirlo.
Penso all’happy pranzo del sabato prima. Noi tre seduti sugli sgabelli di legno del Cernacchino, a pochi passi da piazza Signoria, e i turisti che si fermano e ci guardano dalla vetrina. Due signore gioviali con il grembiule bianco e la crinolina, che ci fanno mille complimenti e ci riempiono un panino, aperto e svuotato come fosse una scodella, con le squisitezze del giorno preparate da loro: ciccina bòna (un tenero spezzatino, la preferita di Ugo-Trilli), peposo, inzimino…
Panino piccolo 2,50, panino grande 5 euro. Un pranzo fast. Mangi con la forchetta finché puoi e dopo addenti il panino bello sugoso. Figuratevi Ugo. Se non la fermavo ordinava un fiasco di rosso.
[Fonti: Il Post, Gola Gioconda]