“Bar, locali notturni e qualsiasi altro esercizio di intrattenimento aperto al pubblico” chiusi dalle ore 18.00 alle ore 6.00: è una delle misure attuate della regione Lombardia per arginare la diffusione del Coronavirus. Un’ordinanza che rischia di avere effetti devastanti sui consumi e sulle attività degli imprenditori di Milano, coinvolgendo tutti i locali che non rientrano nella tipologia “ristorante” e andando a colpire in particolar modo i pub, la piccola impresa e i produttori artigianali, meno attrezzati di altri ad affrontare una settimana di chiusura, lasciati senza risposte e tutele.
“Abbiamo una chat con i colleghi che lavorano nel campo della birra artigianale, ed è da ieri sera, quando è uscita la prima bozza dell’ordinanza, che siamo praticamente impazziti”. A parlare è Ivano Falzone, piccolo imprenditore e proprietario di due birrerie di Milano, La Belle Alliance e Tap, tra i punti di riferimento per la birra artigianale in città.
Da oggi, a seguito dell’ordinanza della Regione Lombardia che impone la chiusura di “bar, locali notturni e qualsiasi altro esercizio di intrattenimento aperto al pubblico” dalle 18 alle 6 del mattino, le sue due attività saranno tra le tante che lasceranno giù le serrande. Per quanto, non si sa esattamente (per una settimana, di certo). Con quali conseguenze economiche, neppure.
“Il vero problema – ci dice Ivano Falzone – è la carenza di chiarezza nelle informazioni”.
Sì, perché in effetti i punti non chiari sono molti, e altrettante sono le domande che si sta ponendo in queste ore chi ha un’attività commerciale, o chi si trova a dover organizzare (e annullare) eventi per cui magari si è lavorato a lungo.
Cosa significa esattamente – in termini numerici – “assembramento di persone”?
E poi: perché i pub chiudono e i ristoranti no? “Quest’ordinanza fa un distinguo tra attività che in fondo fanno la stessa cosa: i ristoranti sono esclusi, e la motivazione ufficiale pare che sia che i ristoranti hanno un’occupazione media più bassa, quindi non si creano degli assembramenti”, spiega Falzone. “Ma cosa vuole dire esattamente assembramento? 3, 5 persone? 10? 50? Tutto è lasciato all’arbitrarietà, e finirà che chi passa decide al momento”.
Senza contare la questione degli orari: “Qualcuno mi dovrebbe spiegare perché c’è un coprifuoco: se ti starnutisco in faccia prima delle 18 non ti infetto? Come se questo virus fosse un impiegato pubblico che timbra il cartellino”, dice Falzone. “Il contenuto di questi provvedimenti presta il fianco a dietrologie e ironie, ma al di là delle battute la cosa è terribilmente seria”. Già, perché senza nulla togliere alla questione legata alla salute e al necessario contenimento della diffusione del virus, resta l’incertezza e la preoccupazione per le inevitabili ricadute economiche che questo tipo di misure avranno.
“Qualcuno mi dovrebbe dire cosa devo fare con i nostri dipendenti: sono in ferie, sono in permesso retribuito, sono licenziabili? Non si sa, perché le indicazioni sono tutt’altro chiare.
Così come anche per la tipologia di locali coinvolti: se ho una cucina posso rimanere aperto? Bisogna capire secondo il codice Ateco qual è l’attività prevalente del locale: ma si può davvero ridurre il tutto a una mera questione burocratica?”.
Per fare un esempio pratico, Ivano Falzone si trova nella situazione paradossale di dover probabilmente trattare in maniera diversa i suoi due locali. Tap chiuderà di sicuro, mentre su La Belle Alliance sta ancora facendo delle verifiche, perché può essere che possa rimanere aperto, in base alla classificazione dell’attività economica. Eppure, i due locali sono sostanzialmente equivalenti.
“Non voglio fare polemiche inutili, davvero”, dice Ivano. “Il mio problema non è vendere la birra, il problema è capire cosa dobbiamo fare io e i miei colleghi con i dipendenti, con le tasse, con gli investimenti che abbiamo in corso, con le merci che eventualmente dovremo buttare”. “Mi viene detto di chiudere per questioni di sicurezza, e io lo rispetto e voglio fare la mia parte, ma il tutto mi viene detto con enorme approssimazione, il che mi mette in difficoltà. Un’attività commerciale non può ragionare senza un progetto a lunga scadenza, capendo come comportarsi settimana dopo settimana. Se mi dicono di chiudere per tre mesi, io sono in grado di organizzarmi: sono un imprenditore, posso prendere i provvedimenti necessari. Ma a oggi io non ho certezze, spiegatemi come faccio a programmare. Come faccio a mettermi in condizioni di pianificare e garantire lavoro per me o per i miei dipendenti”.
Preoccupazioni motivate, serie, comprensibili, legate al fatto che da oggi ci sono attività economiche che, per una settimana o forse più, perderanno il 100% del loro fatturato, ma che a fine mese – al netto di provvedimenti straordinari, di cui si sta parlando ma di cui ancora non c’è traccia – dovranno comunque pagare tasse, mutui, stipendi. Nessun dubbio sulla necessità di tutelare la salute della collettività, ma è importante, in un momento così delicato, tutelare anche la piccola e media impresa, soprattutto quella di chi non ha le spalle sufficientemente grosse per attutire un colpo economicamente importante.
“Vorrei una risposta a tutte queste domande – conclude Ivano – perché al momento abbiamo un’ordinanza scritta in fretta e furia e, mi permetto di dire, con i piedi. Il problema non è che io voglio stare aperto a tutti i costi, né che io chiudo e quell’altro no. Se questa è la strada intrapresa noi ci mettiamo a disposizione, va bene, al di là delle valutazioni personali. Ma voglio indicazioni concrete su quello che succede durante e dopo, perché a questo danno c’è chi sopravvivrà e chi no, ed è fondamentale rendersene conto”.