Tòcio, il forno di Giulia Busato (aka Giuppiness), è largo una cinquantina di centimetri, profondo poco più e alto circa un metro. Sforna pagnotte due volte al giorno (per un totale di 20 kg), per tre-quattro volte a settimana. Lo spazio in cui è sistemato è l’abitazione di Giulia, trasformata in Impresa Alimentare Domestica (l’acronimo, assai intuitivo, è IAD), in pratica l’attività artigianale che consente la preparazione di alimenti presso il proprio domicilio e destinati ad essere venduti a privati e ad altre imprese, ma senza alcun tipo di somministrazione. Per gli affezionati e appassionati di talent show culinari, o semplicemente per chi ha buona memoria in fatto di concorrenti, quello di Giulia Busato non è un nome nuovo: partecipante alla nona edizione di Masterchef, ne uscì dopo una prova in esterna ed un percorso in crescita. Se la pratica di cercare notizie sulle sorti dei concorrenti dei talent a distanza di tempo finisce sempre per assomigliare a quel malinconico e irridente programma che fu “Matricole e Meteore”, qui c’è da parlare di eccezione, per molti motivi.
Giulia non ha aperto un ristorante, è andata a bottega, ha studiato e ha scelto una strada precisa, quella della panificazione, contribuendo a risvegliare il Veneto sull’argomento, in fatto di idee nuove, microbakery e proposte poco allineate. Se oggi si fa un gran parlare di grani antichi, scoperti o riscoperti, a leggere ora la bio con cui Giulia si era presentata a Masterchef si capisce in realtà che il suo percorso non è stato di certo scelto per moda o come calcolo sugli alimenti di tendenza, quanto frutto piuttosto di radici precedenti e coltivate poco a poco. Alla domanda di ordinanza, infatti, nella sua scheda concorrente – “Qual è il tuo piatto forte?” – la risposta era stata “La pizza ad alta idratazione e lunga lievitazione, con un impasto realizzato attraverso l’utilizzo del lievito madre, farine macinate a pietra e grani antichi”. La conferma definitiva circa la determinazione e uno studio “matto e disperatissimo” arriva ascoltando Giulia raccontare il percorso fatto dopo il talent, lontano dai riflettori.
Avvocato, concorrente, panificatrice
Originaria di Noale, in provincia di Venezia, una laurea in giurisprudenza, a Giulia capita di vivere quello che accade a molti di coloro che arrivano dalla campagna: senso di provincialismo, inferiorità, desiderio di emancipazione e fuga dalle proprie origini. Precisazione d’obbligo: Venezia ha certamente una storia secolare di accoglienza ma non sa tacere il senso di superiorità che ne accompagna l’identità in contrapposizione alla provincia. Il risultato è che tutto ciò che è oltre il Ponte della Libertà è “campagna”, come racconta magistralmente Marco Paolini nei suoi spettacoli teatrali in cui il suo “campagneee”, indirizzato dagli abitanti del capoluogo a tutti gli altri, racchiude una canzonatura più o meno marcata. Così, se l’idea del riscatto e quella dello studio come strumento di affermazione ed emancipazione per una certa parte della vita di Giulia hanno avuto la meglio, ad un certo punto la dimensione impiegatizia da operatrice di patronato comincia a mostrare le prime crepe. Di storie strappacuore è pieno il mondo della cucina, bisogna ammetterlo: le variazioni sul tema della fatica, delle lacrime, delle notti insonni, di una passione carsica pronta a risalire in superficie e di un successo finale dopo lunghi sacrifici sono numerose, e finiscono spesso per assumere toni grotteschi. La differenza, in questo caso, sta in una preparazione culturale prima ancora che nell’acquisizione della pratica e in una volontà di trasformare veramente la realizzazione ed il consumo del cibo – il pane, nello specifico – in atti agricoli sociali, politici (tocca citare, tra gli altri, Wendell Berry, Massimo Montanari e Marvin Harris). Conclusa l’esperienza di Masterchef, Giulia legge, studia e va a bottega, come si diceva un tempo: la strada comincia a delinearsi e dopo un praticantato da Davide Longoni a Milano e da MaMM a Udine (oltre ad esperienze come personal chef), arriva a dare forma ad un progetto il cui nome affonda le radici nel dialetto del profondo Nordest: Tòcio. Praticamente si torna a casa, in campagna, ma con fierezza.
Cos’è Tòcio
Giulia non ha il dono della sintesi, bisogna dirlo. Tuttavia quando le si chiede di spiegare, ecco una frase asciutta, che diventa una specie di manifesto programmatico “Tòcio è una micro wild bakery. Sforna pane nomade di pasta madre”. La dimensione nomade del lavoro di Giulia sembra essere la sua cifra stilistica: si muove lei, in continuazione, per capire da dove vengono le farine che sceglie, per raccogliere idee, semi, prodotti; si muove il suo pane, che per la struttura stessa della IAD viene consegnato a domicilio, dopo averlo ordinato via social o mail, o ritirato presso punti di raccolta sparsi per la provincia (ristoranti e bistrot nel veneziano e nel trevigiano). E’ un pane a lunga fermentazione, realizzato con grani italiani, da varietà antiche e autoctone coltivate e lavorate da piccoli coltivatori sparsi per la penisola per lo più molite a pietra da mugnai artigiani indipendenti. Se il tentativo di interpretarlo come un ritorno nostalgico al passato è dietro l’angolo, la smentita è immediata: “Non è il pane come una volta. È il pane di questa volta qui, di ora. Ed è un ora destinato a durare”.
La scelta del nome, Tòcio, rimanda ad una pratica pressoché universale, con declinazioni locali infinite: accompagnare il consumo del pezzo di pane con un sugo, un intingolo, un condimento nutriente, imprescindibile dalla condivisione. E’ fare la scarpetta in dialetto veneto ma è anche la stessa salsa, in un consumo che non prevede posate ma impone solo l’uso delle mani e che vuole la convivialità, ne ha bisogno: “Da queste parti si tocia: touch era troppo british, mentre tòcio è più lagunare, ecco”.
I pani
Le tipologie, per il momento – precisazione necessaria giacché pare che le idee nuove arrivino in continuazione – sono quattro: c’è la pagnotta agricola (farina tipo 1, cereali, tipo 2 evolutiva, farro monococco integrale, segale integrale), quella con cacao e nocciole (grano duro suculo bidì, evolutiva tipo 2 marchigiana), il rugbrød (con segale, segale integrale, semi misti, canapa, avena), ed il pane in cassetta (con saraceno, avena e mix evolutivo marchigiano). Poi, a estro e secondo la stagione, ci sono degli special: focacce, basi pizza da rigenerare, pane con semi e germogli, bao.
Spesso ci sono abbinamenti consigliati poiché l’idea è quella di trasformare pian piano Tòcio in un punto di riferimento per la condivisione di prodotti, oltre al pane (formaggi, vino, birra): “una specie di casoin” spiega Giulia, quello che in dialetto veneto era il vecchio negozio di alimentari, un po’ emporio un po’ droghiere, un po’ luogo di socializzazione e scambio di cibo e rapporti umani.
All’assaggio
L’assaggio ha coinvolto la pagnotta agricola: crosta di grande personalità e dal bel suono, profumo pieno e che anticipa il sapore decisamente articolato, con l’acido della pasta madre in apertura e chiusura. Il morso ha una consistenza bella piena, profonda e grazie al cielo gli alveoli non seguono la moda cavernosa del momento. Sa superare egregiamente anche la prova del congelamento e del consumo successivo. I punti di forza li abbiamo elencati. L’unico elemento di debolezza è la disponibilità limitata.
Punti di ritiro
Spazio Caffelarte, Paese (TV)
Be Orto, Zerobranco (TV)
Oltre il giardino, Mestre (VE)
Clienti
Osteria V, Trebaseleghe (PD)
Spazio Caffelarte, Paese (TV)
Consegna a mano
Zona Noale (VE) e limitrofi