Qualcuno di noi, evidentemente molti tra i torinesi, ha considerato la Gelateria Popolare di Torino una sede di propaganda. E a poche ore dall’annuncio della sua chiusura, non priva di rancore verso l’intero quartiere di Porta Palazzo, viene da chiedersi come mai un laboratorio di gelato che partecipa a progetti di inclusione sociale e offre riviste multilingue in un quartiere dalle mille etnie debba essere considerato un circolo di partito e non un’attività imprenditoriale come un’altra.
Un progetto che forse nessuno di noi aveva capito fino in fondo perché – dice Maurizio De Vecchi, il titolare della gelateria del Balon, che chiuderà a dicembre – “Il mio è sempre stato un esercizio commerciale, un progetto con fini di lucro”, e quindi questa cosa di essere definito un presidio sociale alla fine lo ha sempre messo un po’ in imbarazzo (come se una cosa escludesse l’altra).
Un’identità politica che si è rivelata controproducente per il gelatiere, che oggi abbiamo intervistato, riflettendo sul perché nella zona di Torino “da riqualificarsi” un’attività commerciale dal carattere inclusivo debba chiudere proprio per questo.
La storia di Gelateria Popolare
La Gelateria Popolare, sorta nel 2007 nel cuore di Porta Palazzo, quartiere difficile, multietnico, ma anche vivo e colorato, un presidio sociale lo era davvero. “Arrivavo a Torino dopo 15 anni di lavoro in aziende specializzate in semilavorati per gelaterie artigianali”, racconta Maurizio, “e ho scelto di vivere a Borgo Dora. Mi sono accorto che lì mancava una gelateria, e ne ho aperta una”. Non una qualunque, ma una come si deve: “solo prodotti del territorio, dove possibile scegliendo fornitori, magari nel campo del biologico”, dice Maurizio. “Insomma: puntando sempre alla qualità”. In effetti, i risultati non tardano ad arrivare, e anche noi di Dissapore abbiamo sempre premiato il suo gelato.
Però, negli anni, la gelateria popolare diventa non solo un prodotto, diventa un luogo. Come è successo?
“Ad un certo punto ci siamo resi conto che la nostra non era una gelateria di passaggio, ma una gelateria di quartiere. L’80% dei nostri clienti erano persone che vedevamo tutti i giorni per strada, con cui facevamo amicizia. Ci siamo detti che se vivevamo in un quartiere un po’ borgo, dovevamo stare dietro alle istanze di quel borgo, e abbiamo iniziato a collaborare con tante realtà: con il direttivo commerciale, con le suore dell’associazione “Camminare insieme”, con il progetto di inclusione sociale “The Gate””.
Ed è lì che siete diventati un balurado sociale di Porta Palazzo.
“Queste definizioni mi hanno sempre spaventato un po’, anche perché poi ci si sono ritorte contro. Noi non volevamo dare aspettative, eravamo solo una gelateria. Ma alla fine siamo diventati un punto di riferimento, una realtà consolidata e conosciuta nel quartiere. Le mamme andavano a comprare il pane e ci lasciavano i bambini, gli extracomunitari venivano a leggere i giornali multilingue che mettevamo a disposizione. Cose che economicamente non ci portavano nulla in più, ma che ci hanno dato un’identità precisa”.
L’annuncio della chiusura
Arriviamo al post di ieri sulla chiusura: quali sono stati i problemi?
“Guarda, i social sono il mezzo che abbiamo per comunicare, ma mi rendo conto che sono fraintendibili, soprattutto per quanto riguarda i toni. Io volevo solo fare un quadro della situazione: certo, ho lanciato qualche frecciatina, mi sono tolto qualche sassolino dalla scarpa, ma la verità è che vado via perché ho finito le energie lì dentro”.
Però leggendo i contenuti del post, al di là dei toni, non sembrava proprio così…
“Ma io sono Livornese, la polemica è il mio pane! Però vorrei che fosse chiara una cosa: non è il caso di fare tensioni in zone dove tensioni ci sono già. Io ho solo da ringraziare, tutto il resto fa parte della vita. Succede nel condomino, succede a scuola, è successo anche qua. Io non vado via sbattendo la porta; io vado via da un posto che adoro, ma ho bisogno di motivazioni nuove”.
Quindi è una decisione personale?
“Assolutamente. Oggi Torino, la Popolare, e Porta Palazzo non mi danno più gli stimoli di un tempo: mi sento di non aver niente da dare, quello che ricevo – che è tantissimo – non mi basta più”.
I problemi
Però evidentemente qualcosa non ha funzionato, a giudicare dai contenuti del tuo post.
“Ma certo: una parte del quartiere – che c’è e che c’è sempre stata, ma che oggi è più violenta e si sente sdoganata – non ci ha mai accolto”.
È una questione politica?
“No, è una questione essenzialmente personale, e a questa conclusione ci sono arrivato dopo 13 anni. Tutto quello che è stato detto contro di noi è pretestuoso, sono attacchi personali. Io non sono mai stato facilmente inquadrabile, e questo non piaceva, ero uno strano. Sono stato etichettato come omosessuale, un ricco che lavora per hobby, comunista, anarchico. Poi io ho capito che fa parte della vita, va bene così”.
Ci sono anche questioni economiche dietro la chiusura? Come andava la Gelateria Popolare?
“È un’attività di sussistenza. Io posso raccontare quello che voglio, ma se uno va a prendere i conti, è un’attività che sta in piedi a fatica, ci escono fuori giusto le buste paga. Ovviamente hanno pesato i tre mesi di chiusura, e poi ora la pioggia e la grandine. La nostra era un’attività a rischio chiusura: posso tenere duro, ma se devo magari fallire tra due anni preferisco andarmene ora in bellezza, con una degna conclusione”.
Nel tuo post parli anche di multe: ce l’hai anche con l’amministrazione?
“Non con l’amministrazione attuale. Ti racconto una cosa: la sindaca, quando a gennaio sono stato aggredito, mi ha fatto una telefonata personale, senza dare pubblicità alla cosa, e non penso che l’abbia fatto con l’obiettivo di guadagnare qualcosa. A me ha fatto piacere, non pensavo mi sarebbe mai successo. So bene quanto sia difficile gestire una città, quindi non ce l’ho con l’amministrazione, però con i vigili un po’ sì. La Questura mi ha sempre etichettato come uno dell’area antagonista, ma noi siamo una gelateria, mica siamo schierati politicamente. Quando c’è stata l’aggressione mi hanno convocato in questura: pensavo volessero confrontarsi, chiedere il mio punto di vista sull’inasprirsi di certe dinamiche nel quartiere. Invece mi hanno messo in un angolo, dicendomi che ero border line con i permessi, che avevo buttato io un cerino acceso. Ma quale cerino? Perchè ho detto che sono antifascista?”
C’è chi dice che forse, se avete tutti contro, qualcosa l’avete sbagliato voi. Che ne pensi?
“Penso che ognuno la può leggere come vuole. Io posso dire che non è vero, che ho sempre rispettato limiti e permessi, ma dall’altra parte troverai anche chi ti dice che rompevamo i coglioni. Io sono qui tutto il giorno, mi chiedo solo come mai a nessuno sua venuto mai in mente di venire a dirmi “Maurizio, guarda che ieri sera hai fatto troppo casino”. La gente che mi conosce sa che io sono uno che fa di tutto per evitare lo scontro, sono proprio un moderatore”.
Il futuro della Gelateria Popolare
E ora, che ne sarà della Gelateria Popolare? Resta il negozio di San Salvario?
“In realtà lì c’è un piccolo misunderstanding: quello spazio è del progetto Tenda, una cooperativa storica di Torino, con progetti sociali molto importanti. Noi abbiamo solo fatto una consulenza: loro vendono il nostro gelato. Può anche essere che, in un momento difficile per tutto il settore, io decida di andare per un po’ lì a dare un impulso. In realtà ho in programma di aprire una mia gelateria in Calabria”.
In Calabria? Non pensi che lì certe dinamiche possano essere ancora più difficili? Non saresti ancora di più “quello strano”?
“Forse sì, ma non è un salto nel buio. Vado nel paese natio di mio padre, ho già un’attività di famiglia avviata lì. Io cercavo un contesto più nella natura, e poi la Calabria è alla mia portata economicamente. Io Torino quando sarò in pensione non me la potrò mica permettere. Senza contare che al momento c’è un bellissimo movimento in Calabria (di cui abbiamo parlato di recente anche noi, ndr), con un lavoro sul vino stupendo e tante belle attività di qualità: è quello il contesto in cui voglio andare a inserirmi”.
Un’ultima cosa: cosa pensi della riqualificazione di Porta Palazzo?
“Ci vorrebbe una giornata per parlare di questo argomento. Penso che come sempre alcune cose sono state fatte bene, altre meno. Quella della riqualificazione dei centri è una direzione globale, quindi si va in quel senso lì: io temo che ci saranno altri cambiamenti, e secondo me si cambierà in peggio. La città non si rende conto che ha un patrimonio da valorizzare: per esempio, ora vogliono cambiare i banchi del mercato, ma quei banchi li, con le ruote, sono bellissimi. Rischi di creare un mercato fotocopia di tanti altri, magari più a norma, ma molto meno personale”.
Il Mercato Centrale è una delle cose “fatte bene” o no?
“Nel quartiere all’inizio è stato molto criticato, perché era una di quelle cose un po’ calate dall’alto. Però alla fine questi signori qui, oltre ad aver creato centinaia di posti di lavoro, hanno dato un’offerta di qualità, a un prezzo neanche troppo alto. In più sono riusciti a inserirsi nel quartiere: gli Arabi per esempio lo adorano, loro sono abituati a stare ore seduti a un tavolino bevendo un caffè, e lì possono farlo. Dal mio punto di vista magari avrei preferito se lì si fosse fatto un bel centro culturale, o se si fosse riuscito a coinvolgere di più le attività già esistenti, come la cooperativa che gestisce il mercato coperto attuale. Però nessuno aveva la forza di farlo, ed è dovuta arrivare una realtà esterna che, devo dire, ha anche dato da subito una grande disponibilità alle attività di quartiere. Quindi, alla fine, mi sembra un bel progetto”.