Comprenderete la nostra titubanza. Quando abbiamo saputo che Five Guys, la popolare catena di Hamburger Americana che ama non definirsi fast food, in virtù di materie prime fresche e pietanze preparate al momento, ha aperto a Milano, ci siamo indispettiti a priori. Siamo stufi di sentirci dire “Non è come pensi” vedendoci porgere pane gommoso.
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Abbiamo comunque voluto darle una chance. Siamo andati al numero 37 di via Vittorio Emanuele II, dove quella che secondo Forbes è la catena più in crescita del momento ha messo una bandierina, la prima in Italia.
Il marchio made in Washington DC (dal 1986) non ha badato a spese: si è piazzato a pochi passi dal Duomo, con un numero di persone dietro il banco da far concorrenza alla nuova Roastery di Starbucks, peraltro a un soffio da lì. Due piani, perennemente occupati durante il weekend.
Accolgono la clientela i sacchi di arachidi, caratteristici dei negozi della catena, da dove attingere gratuitamente per riempirsi lo stomaco. A fianco, sempre customizzati con i colori brand, sacconi di patate pronte da tagliare e friggere. E’ un vanto del posto, il taglio amanuense del tubero, la cui varietà cambia in base alla stagione. Arredi minimal, che però non lesinano sull’auto-compiacimento, materializzato sulle pareti sotto forma di articoli di giornale e citazioni di noti a proposito di Five Guys stessi medesimi.
Sarà pure per questo che i prezzi sono superiori a quelli della concorrenza: 3, 5 euro per le patatine piccole, e 8,5 euro per l’hamburger, proposto in poche varianti, alterato da hot-dog e un paio di sandwiches. Il menù è in effetti striminzito: esile, fissato sul tabellone luminoso sopra le casse, sembra quello di un McDonald’s di 30 anni fa.
Compensa la personalizzazione dell’offerta, perdipiù gratuita: al momento dell’ordine si possono aggiungere, a piacere, salse, pomodoro, cetrioli, funghi, cipolle, insalata e compagnia cantante. Peccato che il servizio non sia molto attento. Del ketchup che ho chiesto per il mio panino, assemblato enfaticamente sul momento, non c’era traccia. Fortunatamente ci sono i dispencer, da cui attingere gratuitamente.
Si ordina, si aspetta col numerino e poi ci si accomoda ai tavoli. Se gradite le bevande gassate analcoliche, prendete il bicchiere (a 3,5 euro) e lo riempite quante volte volete, altrimenti potete darvi alle birre, basiche come la Nastro Azzurro e la Budweiser, o modaiole (ma pur sempre industriali) come la Goose Island IPA.
Il panino vi arriverà in sacchetti di carta abbastanza anonimi da farvi entrare nella parte di un barbone a Manhattan e sufficientemente spessi da isolare l’unto, dacché conterranno pure le fries.
Quanto al gusto, la carne dell’hamburger mi è arrivata stracotta (e non aspettatevi che vi venga chiesto il grado di cottura desiderato), il formaggio è il classico, sgargiante, cheddar, e il bun (cioè il pane) è dolciastro, morbido, ma dimenticabile. Il tutto è avvolto dalla carta stagnola, che non lo rende un grande spettacolo. Le stagionali patatine, orgoglio gourmet del luogo, sono salate da non crederci.