Durante il lockdown si diceva che dei bar mancasse il rito, il gesto di alzare la tazzina dell’espresso e consumare il proprio caffè al banco, nella confusione (pardon, assembramento) mattutino, nel marasma tra le 8 e le 9.30. Ma a me, dei bar, manca lo smart working, recentemente rinominato smartuorchi in ossequio al Premier, che tanto ci ha invitati al lavoro da casa, intendendo specificatamente “a casa”.
Lo smartuorchi, però, non è propriamente relegarsi tra le quattro mura di un appartamento, bensì l’assenza di vincoli spazio-temporali, anche e nonostante un rapporto di lavoro subordinato. Il freelance è uno smarworker per antonomasia, il dipendente che da marzo al 18 maggio si è trovato a fare smartworking è uno che si arrabatta tra file esportati e la scoperta delle video-chiamate seriose. Siamo in Italia, suvvia, questa è una novità.
Per chi, come me, ha sempre vissuto di smart working, questi mesi saranno sembrati facili, a marzo. Senza un ufficio da raggiungere quotidianamente, una tavola calda di fiducia per la pausa pranzo, un pub in cui fare tappa fissa alle 18.00, timbrato il cartellino, cosa volete che sia cambiato?
Ebbene, parlo per me, che vivo lo smart working nei bar, è cambiato tutto. Con il dovuto rispetto per i tanti avventori del banco da una sorsata e via, in questa fase 2.5 mi sento in Fase 1, insomma in lockdown totale: l’unica arma che possedevo contro l’alienazione domestica, lavorando ovunque (e dunque spesso in casa) era il bar, possibilmente una caffetteria con specialty coffee o comunque un bel posto in cui stare, trascorrere ore con una presa elettrica accanto al tavolo, consumando possibilmente cibo e bevande rispettabili.
I locali PER lo smart working, per la cronaca, esistono. Sono quelle caffetterie fredde, quegli spazi non meglio determinati nelle food hall, “mense” tristi con quinoa e fagiolini sottovuoto in un banco-frigo, tra tavoli abbastanza distanziati per assicurare l’isolamento necessario per lavorare. Tantissime prese, nessuna resa, in posti che appartengono poco alla nostra cultura mediterranea e nonostante la globalizzazione percepiamo come esotici, nord-europei, nello specifico.
Non ci vado negli spazi dichiaratamente adibiti allo smart working: sarebbe come leggere “I promessi sposi” perché lo dice la maestra, toglie tutto il gusto. Il lavoro agile è dentro di sé, bisogna trovare il proprio posto, nel chiacchiericcio di una quotidianità vera, per non alienarsi.
Insomma un bar qualunque, purché diventi il proprio bar e si consumi abbastanza da non far rimpiangere al barista di aver piazzato un tavolo proprio lì, accanto a una presa elettrica. L’impressione è quella di far parte di una società, nonostante il traffico e l’andirivieni dei clienti non appartenga a noi, dello smarworking, senza che ci si mischi. Perché siamo animali sociali e diavolo, le dark kitchen e il fine dining rigenerato tra i fornelli di casa non può essere il futuro.
Lo smartuorchi, ora, non si può. Con la mascherina addosso per tutto il tempo trascorso seduta al tavolo, le dovute distanze tra un tavolo e l’altro che mi fanno rimpiangere casa mia, gli ingressi contingentati che misurano i minuti del mio lavoro, a ricordarmi che sono lì per consumare e andare, non per stare.