Girare per Venezia nei giorni del Carnevale è un’impresa che ha dell’eroico.
Per chi ci vive o ci lavora significa schivare onde informi di turisti che si muovono come un blob, evitare banchi di sardine umane coperte da abiti bizzarri che, se in alcuni casi sono davvero costumi raffinati, nella maggior parte sono per lo più mascherine che coprono il volto accompagnate da cappelli e piume.
Se il vostro scopo è fotografare vestiti e immortalare nuvole di coriandoli, insomma, pensateci bene.
Tutt’altro discorso se si parla di dolci, che possono trasformarsi davvero nell’unico motivo per attraversare calli e campi affollati. Anche i veneziani duri e puri, infatti, quelli che rifuggono il Carnevale e brontolano costantemente per la calca, non rinunciano a frittelle e galani.
Trovando scorciatoie o passaggi segreti per raggiungere più comodamente pasticcerie e templi del fritto. E ingaggiando puntualmente, ogni anno, accese dispute gastronomiche sulla miglior fritola della città.
Sì perché Venezia e la fritola, dal 1200 circa, sono un tutt’uno: si mescolano assieme come le uvette nell’impasto, si confondono come i pinoli negli alveoli, si cercano reciprocamente e ansiosamente come lo zucchero bianchissimo e il vostro nuovissimo abito scuro.
Evoluzione della zelabia arabo-persiana, fatta conoscere ai veneziani da Giambonino da Cremona, la fritola (non chiamatela frittella: vi riconosceranno subito e vi daranno una di quelle del giorno prima) era il capolavoro dei fritoleri.
Talmente importanti da essere riuniti in Corporazione (nel ‘600) e da tramandarsi il mestiere di padre in figlio (dei veri notai del fritto, insomma) questi maestri dell’olio, del burro e dello strutto se ne andavano ambulanti per le calli o nei campi (per poter friggere all’aperto l’Arte stanzia una somma altissima) o lavorano dentro “baracche di legno di forma quadrangolare”, impastando “la farina sopra ampi tavolati per poi friggerla con olio, grasso di maiale o burro, entro grandi padelle sostenute da tripodi.
A cottura avvenuta, le frittelle venivano esposte su piatti, variamente e riccamente decorati, di stagno o di peltro.
Su altri piatti a dimostrazione della bontà del prodotto, venivano esibiti gli ingredienti usati: pignuoli, uvette, cedrini”.
Qualche numero? Nel 1743 se ne contano 27 ma nel 1797 sono ben 150.
Celebrati da nobiluomini in calzamaglia, gilet e camicie svolazzanti (gli originali eh, mica le ricostruzioni kitsch di oggi) e cantati da Goldoni, i fritoleri sono talmente amati da farne un prototipo: il fritoler-venditore per eccellenza (vero o finto che fosse) è tale Zamaria.
In quei libri pazzeschi da mercatino dell’antiquariato, quelli che testimoniamo i mestieri di una volta, il nostro eroe è ritratto tra fumi di olio bollente e la vignetta esplicativa recita: “Su le sagre, e spesso anca in altri luoghi, fritolazze mi vendo col zebibo”.
Ora, se volete far le cose come si deve, procuratevi lo zibibbo: alle fritole ci pensiamo noi. Sappiate però che quelle che mangerete sono diverse da tutte le altre.
Le vere veneziane, infatti, hanno un impasto che assomiglia a quello della focaccia: sono, insomma, belle piene. Se esistesse un sommelier della fritola, vi consiglierebbe di assaggiarle tiepide, annusandole lievemente per poi dare un morso deciso alla pasta dorata, soffice e spugnosa, affondando fino a che la punta del naso non si ricopre di zucchero.
Per gli amanti dei ripieni, l’altra versione della frittella veneziana è quella di una pasta tipo bignè, che una volta raffreddata dopo la frittura viene riempita di crema o zabaione.
Compagno della regina dei fritti è lui, il galano: si declina solo al plurale, dato che non se ne mangia mai uno solo. Ogni regione ha il suo nome (chiacchiere, frappe, bugie, cenci …), ma il principio è lo stesso: una sfoglia di pasta, fritta nell’olio e spolverata di zucchero a velo.
L’origine pare sia romana: durante il periodo primaverile si preparavano dei dolci molto simili con l’impasto delle lasagne, fritti nel grasso di maiale e successivamente zuccherati. Nel resto del Veneto si chiamano crostoli (da crustula: sembrano cioè croste di pasta) appunto croste, a Venezia sono galani (era il nome dei nastri intrecciati che in passato portavano al collo le ragazze).
La differenza però non è solo lessicale: i galani sono sottili e friabilissimi ed hanno forma a nastro, i crostoli invece sono tendenzialmente rettangolari, meno friabili ed un po’ più spessi.
Tentare di riprodurre a casa fritole e galani veneziani è impossibile.
E’ obbligatorio gustarli in loco, possibilmente in accoppiata: ecco allora qualche indirizzo utile. Pochi, perché a Venezia chi li sa fare a regola d’arte si conta sulle dita di una mano.
1. Rosa Salva
Guardare un impasto e innamorarsi all’istante. Sentirsi in armonia con il mondo anche senza aver soggiornato un ashram. Ecco, di fronte alle fritole di Rosa Salva, la sensazione è questa.
Le veneziane hanno 3 ore di lievitazione, poi vengono fritte facendo un grosso buco al centro (“perché così si cuociono in modo uniforme” dice il titolare), buco che lascia una delicata traccia di sé dopo la cottura e che trasforma la classica sfera tonda in un esemplare più schiacciato e basso.
Uvetta australiana (“è la migliore, perché è grossa e morbida e dà sapore all’impasto”), pinoli e una breve pausa prima di essere tuffate nello zucchero semolato, mai a velo. Da consumarsi senza ritegno.
Quelle ripiene, appena fatte, sprigionano un profumo di uova e vaniglia che crea dipendenza: la crema è chantilly (non la pasticcera perché troppo pesante) e lo zabaione è mescolato alla panna pure lui, per alleggerire (!) la consistenza complessiva.
Volete dei numeri? Per 600 frittelle, 170 uova.
Tenetevi un po’ di spazio per i galani: sottilissimi, con profumo di arancio, un lieve sentore di anice e un po’ di vino bianco. Ci sono anche le castagnole… E pasticcieri si muovono con una tale grazia…E sorridono…
Dite che è l’effetto degli zuccheri? Vi assicuro che uscire dal laboratorio è stato difficilissimo.
2. Tonolo
9000. Dico 9000. Un vecchio pasticcere ha detto che una volta, in un solo giorno, ha fritto novemila frittelle. Un millantatore? Impossibile.
Io ho dovuto sgomitare solo per poter intuire i cartellini con le indicazioni dei vari ripieni…
Qui il classico tondo trionfa: le fritole sono esattamente come ve le aspettate. Dorate e tonde le veneziane, con qualche cornetto di pasta che reclama spazio, e rotondette quelle ripiene.
Oltre al binomio crema-zabaione, c’è anche il ripieno di cioccolata. Forse troppo carico: ho visto un giapponese a cui tremavano le mani all’assaggio. Leggere, morbide, mai gommose e senza una sbavatura dovuta all’eccesso di fritto. Misurate nella dolcezza e nel ripieno. Lo zucchero a velo non ha nemmeno il tempo di rapprendersi, tanto è lo smercio.
Non ho mai sentito qualcuno ordinarne solo una: le migliori intenzioni si perdono dopo il primo morso di veneziana.
Ah, vi ho detto che ci sono anche quelle di mele?
Buoni i galani: leggermente (questione di millimetri, eh) più spessi dei precedenti, ma friabilissimi.
In realtà, la disfida annuale potrebbe concludersi qui: ogni anno infatti pare che la città si spacchi in due, come uno stadio pieno di opposte tifoserie di hooligans durante una finale di campionato.
Ognuno sostiene infatti le proprie ragioni sulla bontà delle fritole di Rosa Salva contro quelle di Tonolo.
Dovendo essere giudici imparziali e dovendo pure dare dei consigli sullo street food carnevalesco per eccellenza, noi non solo non ci schieriamo, ma continuiamo a farvene assaggiare altri esemplari.
3. Rizzardini
Dei cartelli di Rizzardini avevamo già detto: in questo caso però, l’ironia vince.
Le sue “venessiane sensa gnente” (traduzione: veneziane senza niente. Insomma, volete capirlo che sono senza ripieno?) non sono niente male.
Appena un pelo più fritte delle altre, leggermente più irregolari nella forma, ma valide.
4. Didovich
Buone anche quelle di Didovich: non troppo dolci, ripieni misurati e ottima uvetta.
Per i galani, ecco Colussi, in Calle Lunga San Barnaba. Pasticceria tradizionale, prezzi in linea con il nome blasonato.
Prima di immergervi nella folla variopinta, ultimi consigli.
Diffidate di ripieni troppo esuberanti: nel migliore dei casi coprono il gusto dell’impasto e trasformano la fritola da delizia a involucro stomachevole. Nel peggiore dei casi sono invece una scusa per coprire una pasta non a regola d’arte o camuffare fritture fatte con olio stantio.
Fatevi amico lo zucchero a velo: si trasformerà in zelante sentinella capace di dirvi se la fritola giace immobile da un po’ sul bancone.
Infine abbandonate le abbronzature eccessive: fritole troppo scure vi lasceranno un amaro in bocca che vi farà passare la voglia di tornare l’anno prossimo.
[Crediti | Link: Dissapore, immagini: La Nuova Venezia]