“Cercava la rivoluzione e trovò l’agiatezza” ha scritto Leo Longanesi, delineando il destino ideale cui tende gran parte delle esistenze. Motto che, applicato ai tavoli dei ristoranti, spiega perché un tempo ci accontentavamo dei microtavolini da bistrò francese e ora desideriamo che quei tavoli siano larghi e ben distanziati.
C’è un’età in cui nei locali preferiti si sta compressi e si è più incuriositi dalla conversazione di sconosciuti cui sediamo vicini che da quella in corso al nostro tavolino-francobollo. L’apparecchiatura è senza tovaglia, tutt’al più con un rettangolo di carta, e il tavolo è stato pulito svogliatamente da una cameriera distratta, con uno straccetto sporco.
Anni dopo, alla ricerca se non dell’agiatezza quantomeno della comodità, il nostro tavolo ideale diventa quello ampio, meglio se rotondo. Deve avere una tovaglia di dimensioni normali, non di quelle a bendaggio (moda incomprensibile) né di quelle dalle proporzioni barocche, nelle cui volute di stoffa si conficcano i tacchi a spillo delle signore. Anche le sedie sono importanti: è fondamentale che non siano di plastica (fanno sudare), che non siano impagliate (tirano i fili di abiti e calze), che non abbiano braccioli troppo stretti (chi è grasso rimane incastrato).
In certe trattorie, se soli, capita di venire introdotti al tavolo di qualcun altro. Succede all’ottima Latteria di Arturo e Maria Maggi, in via San Marco a Milano, dove si fanno conoscenze gustose quanto i piatti. Ed è la regola alla storica pizzeria San Michele di Napoli.
Parlando di tavoli collettivi, a Milano c’è stata l’esperienza di Cube, un ristorante di lusso ospitato in cubo prefabbricato e appoggiato sui tetti di piazza Duomo. Per quattro mesi, il tempo della licenza temporanea, vi si sono alternati alcuni dei più interessanti chef italiani. Un unico tavolo da 20 posti, e un costoso menu fisso da circa 200 euro. Ma, dati i prezzi, i posti venivano acquistati perlopiù da aziende, per ospitarvi i clienti migliori. Morale: tipica incomunicabilità milanese, con tutti allo stesso tavolo ma ognuno rinchiuso nel proprio gruppetto, a parlare il gergo anglo-italiota del proprio lavoro.
Arrigo Cipriani, che sul comfort degli ospiti ha costruito una fortuna, spiega che nei suoi ristoranti “i tavoli sono bassi e comodi, così i clienti si sentono subito a loro agio. Ecco perché i bambini adorano l’Harry’s bar: perché una volta tanto non hanno il tavolo che arriva fino al mento”.
Per me, l’Harry’s bar è anche il ristorante con il miglior sistema di tovaglie visto sinora: anziché togliere le briciole, prima del dolce, i camerieri srotolano una nuova tovaglia di lino su quella usata, trasferendo man mano le stoviglie.
[Crediti | Dalla rubrica “Cibo e Oltre” di Camilla Baresani su Sette, inserto del Corriere della Sera. Immagine: Maurizio Camagna]