Cos’hanno in comune Sting, Rocco Siffredi, Massimo D’Alema, Oliviero Toscani e Renzo Rosso. I soldi, l’età? No, e non fate ipotesi azzardate: semplicemente producono vino.
Sarà la deriva panteista dei post-cinquantenni, la patina cool del mondo del vino (tanto la fatica vera la fanno gli altri, dirà qualcuno), o la voglia di mettersi in gioco in altri contesti ma la tentazione appare irresistibile.
Ecco allora che qualche giorno fa m’imbatto su D di Repubblica proprio nell’agiografia intervista dedicata a Renzo Rossi, fondatore e proprietario della Diesel e tenutario a Bassano del Grappa di una Farm dove “oltre ad allevamenti di animali e a un meraviglioso orto, si producono tre tipologie di vino, due di olio e una di grappa. Tutte rigorosamente di altissima qualità e bio”.
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Il tono solenne e spudoratamente sviolinante (“sono davvero stupefacenti, quasi contagiose, l’energia e la passione che Renzo Rosso trasmette” è l’attacco diversamente severo) non mi aveva impedito di scorgere argomenti enologici mediamente lisergici nelle risposte di Rosso.
Perle di tale livello:
— Trovare la posizione giusta per i tralci è stato facile
— Per creare il ‘nero di Rosso’, ottenuto da uve di Pinot Nero, leviamo la buccia da ogni singolo chicco
— La mia fattoria è al 100% biologica e il mio vino sarà il primo biologico di alta qualità
Ma come il primo, Rosso, che stai a dì? Ad ogni modo le argomentazioni hanno fatto il solito giro social scatenando l’usuale mattanza. Sberleffi, catena di Sant’Antonio su Facebook per sghignazzare in tanti, commenti basiti: “Non può aver detto certe cose…neppure se si fosse bevuto le 15.000 bottiglie una dietro l’altra”.
Se la prende soprattutto chi il bio lo fa da molto tempo.
Eppure, ieri, come in occasione della vendemmia turistica di Sting, Giancarlo Gariglio su Slow Food bacchettava un po’ la rete e i tempi da indignazione a comando, suggerendo l’ipotesi che il giornalista, chiaramente debole in enologia, abbia trasformato un dialogo generale in una sorta di commedia dell’assurdo, con Rosso che sostanzialmente non aveva fatto bene i compiti.
Ma soprattutto Gariglio sostiene che, nonostante l’indignazione di chi il vino lo studia, lo conosce e lo produce, tra fatiche immani, questi personaggi sono uno sponsor importante per il settore. Della serie noi appassionati attiviamo la modalità basito, mentre mio zio incuriosito va a comprare qualche bottiglia in enoteca.
Non so se sia così; mi pare che il vino sia troppo poco esoterico per ricevere un tale imprinting commerciale ma è anche probabile che qualche truzzo appena maggiorenne sabato prossimo in discoteca prenderà un bicchiere di Chianti a caso, piuttosto che il solito Long Island. O magari, perché no, il vino vegano.
Ad ogni modo, personalmente, credo che vada ringraziato Rosso per aver provato a convincere gli italiani di alcune rivoluzioni enologiche epocali come il fatto che l’area intorno a Bassano del Grappa possa essere una Borgogna italiana, che con una grafica dell’etichetta dolce, elegante e a tratti dorata, si possa sottolineare l’aspetto luxury del prodotto (ma non era il bio il concept?) e soprattutto che va levata la buccia da ogni singolo chicco!
Sono sentenze che non faranno bene al mondo del vino, ma sicuramente al buon umore. E alle tasche di chi lo seguirà in questo progetto.
[Crediti | Link: dRepubblica, Slow Wine, Venturino Vini, immagine: Panorama]