Parliamo spesso e volentieri di grandi cucine, meno, assai meno, di grandi cantine. Essendo tra coloro che ritengono doveroso accompagnare un pasto importante con bottiglie all’altezza, quando vado al ristorante la carta dei vini riveste un ruolo spesso decisivo nella scelta del posto.
Il criterio con cui ho composto l’elenco è prettamente empirico: ho prenotato in ciascuno di questi ristoranti con il preciso scopo di bere delle bottiglie ben precise. Sono locali che vincono, più che in ampiezza (cioè numero di etichette presenti), in profondità di annate: per fare una carta ampia basta un budget importante, la costruzione di una lista profonda richiede tempo, conoscenza e abilità superiori.
Premessa sui tre stelle: ho volutamente escluso dalla lista i sette ristoranti italiani che si fregiano delle tre stelle Michelin, per il semplice motivo che altrimenti mi rimarrebbero solo tre posti e la scelta diverrebbe impossibile. In ciascuno di questi locali comunque, le cantine contengono abbastanza etichette prestigiose e annate importanti da soddisfare le necessità dell’enofilo più esigente. La cantina dell’Enoteca Pinchiorri è considerata la più fornita al mondo, e la Pergola non è così distante.
Leggermente meno imponenti, ma sempre di tutto rispetto, sono le cantine di Calandre, Dal Pescatore e Vittorio, dove il conoscitore, esplorando con destrezza i libroni (o l’iPad, nel caso del ristorante di Brusaporto), riuscirà comunque a pescare gemme nascoste a prezzi plausibili. All’Osteria Francescana decisivo è il fattore umano: in genere rifuggo dai percorsi al bicchiere e faccio sempre di testa mia, ma quando la degustazione è pensata da Beppe Palmieri cedo volentieri all’eccezione.
La mia cantina a tre stelle preferita, però, è il Piazza Duomo di Alba: non solo Langa ma anche tanta Francia e Germania, poi le etichette giuste nelle annate giuste, anche vecchie, a prezzi ragionevoli. Sarà per una certa affinità tra il mio gusto e quello delle ultime due persone responsabili della cantina, ma qui come in pochi altri posti mi sento nel mio habitat naturale.
Sin qui le ovvietà assolute; di seguito, dieci indirizzi a tratti un po’ meno ovvi dove andare a pescare bottiglie introvabili.
Il Centro, Priocca d’Alba (CN). Quando, due anni or sono, questo ristorante ha preso la stella Michelin, aveva smesso da tempo di essere un segreto ben custodito tra langaroli e amici delle Langhe. Vuoi per una cucina che lavora con perizia ingredienti strepitosi, vuoi per l’interpretazione del fritto misto alla piemontese, un percorso da bucket list che farebbe vacillare più d’un diversamente onnivoro, o per la cantina, fortemente incentrata sul Piemonte e ricca di Barolo e Barbaresco maturi a prezzi ragionevoli.
A onor del vero, va detto che anni fa era decisamente più fornita, poi le invasioni barbariche degli enofili più smaliziati hanno lasciato il segno; resta comunque tra gli indirizzi di riferimento per bere bene in Langa.
La Ciau del Tornavento, Treiso (CN). Una vista bellissima accoglie i gourmet, non solo locali, appassionati di questo ristorante. Una cucina garbata e raffinata, conscia delle tradizioni langarole ma felice di farsi contaminare; potrei mangiare senza sforzo un numero imprecisato dei loro gamberoni in crosta di nocciole.
Dietro un imponente caveau blindato (che, lo ammetto, vorrei proteggesse la mia di cantina) riposa una selezione di quasi duemila etichette, concentrata sul meglio della produzione italiana e non solo – c’è anche la Francia giusta, bianca e rossa, con o senza bolle. Su certe etichette in particolare, Monfortino e riserve di Giacosa in primis, è un assortimento difficilmente battibile, anche se i prezzi si fanno sentire.
Zur Rose, Appiano (BZ). Ci spostiamo in Südtirol, alla corte del quotato chef Herbert Hintner, maestro della tradizione culinaria locale, forse insuperabile nel valorizzare la stagionalità di ortaggi e funghi del posto. La carta dei vini, ben assemblata, non si concentra sull’Alto Adige, ci sono anche Piemonte e Toscana, mentre stupisce l’assortimento di Borgogna; anche in Germania caschiamo più che bene.
Ma prima ancora della selezione, il motivo di sorpresa sono i ricarichi RI-DI-CO-LI su una sfilza di vini gloriosi delle annate giuste, che a quelle cifre sarebbero regalati in enoteca. A onor del vero è una lista perfettibile e che si è fermata a qualche anno fa sul piano della ricerca, ma quando si guarda la colonna destra ci si passa sopra più che volentieri.
Stua de Michil, Corvara (BZ). L’Hotel La Perla è uno dei luoghi più incantevoli dell’Alta Badia, e il suo ristorante, la Stua de Michil, un gioiello che meriterebbe una visita solo per l’estetica. La cucina si muove tra le Dolomiti e il Mediterraneo, con ben poche sbavature.
Ma ciò che rende celebre questo luogo è una cantina folle, eccessiva, pazzesca, anche pacchiana, il cui sancta sanctorum è il tempio del Sassicaia, dove la più sacra delle circa quattromila reliquie custodite è la prima bottiglia della prima annata commercializzata, la 1968. La selezione è sterminata, sarà anche un po’ Bordeaux-centrica, ma ce n’è per tutti i gusti, con più di qualche etichetta introvabile e prezzi a tratti da affare.
St. Hubertus, San Cassiano in Badia (BZ). – Come avrete capito se non lo sapevate già, in Südtirol si beve benino; restiamo in Val Badia, in quello che è probabilmente il ristorante più quotato della regione guidato dallo chef Norbert Niederkofler. Da tempo si rumoreggia, anche se mai con troppa insistenza, della terza stella Michelin che ancora non s’è vista. Se guardiamo cucina e servizio quasi quasi potrebbe starci: e la cantina?
Sì, anche la cantina è all’altezza. Non c’è un numero sterminato di produttori, ma di quelli che ci sono le annate vecchie non mancano di certo, specie in Italia. Magari in qualche zona (Piemonte in primis) si potrebbe fare qualcosa in più, ma insomma, di bottiglie per divertirsi ce n’è a volontà, anche nei millesimi giusti.
Paolo Teverini, Bagno di Romagna (FC). Ristorante di stampo piuttosto classico, ai limiti del retrò, con una cucina affidabile e rassicurante e uno dei migliori carrelli dei formaggi d’Italia. Ma tanto qui si viene per bere, per aprire gioielli impossibili a prezzi da Babbo Natale. La carta dei vini è composta da 120 pagine di puro divertimento, in Italia vi si trovano referenze altrove inesistenti, dimenticate, perdute, a fianco a grandi classici, tutti offerti con ricarichi insensatamente bassi; e sui grandi formati c’è da divertirsi ancora di più.
In Francia non c’è altrettanta profondità di annate (altrimenti saremmo da Troisgros), ma ci sono quelle giuste e la politica dei prezzi è la stessa. Da segnalare che è fra i pochi ristoranti con una lista sterminata di vini da dessert e da meditazione, compilata con il medesimo criterio.
San Domenico, Imola (BO). Ripeto sempre che chiunque voglia scrivere di cibo, in Italia, deve avere mangiato qui. Il Cavalier Morini, patron d’altri tempi, tiene saldo questo timone dal 1970, quando ai fornelli c’era il maestro Nino Bergese, scomparso nel 1977, seguito dall’attuale chef, Valentino Marcattili.
Al San Domenico si celebrano la storia e la gloria della cucina italiana. La cantina riflette l’epica del locale, almeno per quanto concerne i vini rossi: le reliquie veronelliane abbondano, e scendere nei locali cinquecenteschi che le ospitano per il conoscitore, è esperienza di quelle che fanno sobbalzare il cuore. La carta riflette solo in minima parte il patrimonio enoico di questo luogo di culto, dove si può bere la storia senza svenarsi.
Caino, Montemerano (GR). La cantina che Maurizio Menichetti ha assemblato nel corso dei decenni in Maremma è impressionante anche per chi è abituato a frequentare tavole prestigiose. La carta imbarazza per la profondità di annate, soprattutto sui vini nazionali dove i grandi millesimi degli anni Sessanta e Settanta sono pienamente rappresentati. Anche se l’ossatura dell’offerta di vini francesi sono i due decenni successivi.
Più che una cantina un tempio da profanare il più possibile, ricarichi permettendo – siamo nella piena correttezza, ma non ai regali di alcuni degli altri ristoranti citati. In ogni caso, qui si viene tanto per bere quanto per apprezzare la cucina di Valeria Piccini, una teoria di sfavillanti classici ben radicati nel genius loci toscano: le due stelle Michelin sono sacrosante.
Enoteca Le Case, Macerata. Una delle più belle carte dei vini d’Italia ci ricorda che qui si è affermato Maurizio Paparello, oggi a Roma da Roscioli, la persona più preparata in Italia sul vino. Sono passati non pochi anni da quando Maurizio ha ceduto il testimone, anni in cui lo chef Michele Biagiola è cresciuto proponendo una cucina creativa ma garbata, partendo dagli ingredienti del territorio.
Per gli amanti di chardonnay e pinot noir, solo Roscioli (aridaje) presenta un’offerta paragonabile a questa se teniamo conto dei prezzi; ma anche il resto della Francia e dell’Italia non è certo tenuto in disparte. Come immaginabile, questo è anche il tempo del verdicchio: la più grande uva bianca d’Italia racconta la sua magnificenza attraverso quattro decenni con etichette mitiche e ormai introvabili proposte a cifre più che ragionevoli. Un solo caveat emptor: pensateci due volte prima di sedervi all’esterno d’estate, se non volete ritrovarvi terzi incomodi nell’eterna lotta tra le zanzare e la citronella, da cui il naso del degustatore esce certamente sconfitto.
Don Alfonso, Sant’Agata dei Due Golfi (Na) / La Torre del Saracino, Vico Equense (NA). Eccolo qua, il più classico dei pari merito da utilizzare come scusa per mettere in lista undici ristoranti invece di dieci. Se dovessimo valutare l’estetica, la cantina del Don Alfonso (ristorante di cui mi rifiuto di fare presentazioni) sarebbe probabilmente la prima della lista, un cunicolo pre-romano che si spinge nel tufo fino a profondità di rilevanza speleologica. La lista è sterminata, difficile trovare lacune, sia in Italia che all’estero le annate vecchie non mancano; l’unico neo è che se la proposta è per tutti i gusti, non è certo per tutte le tasche.
Più accattivante la politica dei ricarichi della Torre del Saracino: per ampiezza e profondità, forse questa cantina di notevole impatto estetico, si ferma un gradino prima di quella del Don Alfonso, ma soprattutto in Italia i pezzi clamorosi non mancano, e soprattutto ben altra è la fruibilità. Anche la cucina di Gennarino Esposito non ha bisogno di biglietti da visita, fossi nei panni dell’inafferrabile neocuratore della Guida Michelin Lovrinovich darei la terza stella a entrambi.
Sin qui, gli stellati; la prossima settimana tirerò fuori dal cilindro altri dieci indirizzi, ben noti ai degustatori più appassionati ma certamente più inattesi di questi.
[Immagini Flickr/Chiara Regazzini, Flickr/Luciano Ricci, Flickr/Chic, Altissimo Ceto, Flickr/Sfuocato Ubriaco, Flickr/Luxury Hotels]