Se n’è fatto un gran parlare ultimamente, soprattutto dopo una puntata di Report che si permetteva di smontare la certezza italica del caffè che-come-a-Napoli-nessuno-mai.
Tuttavia, alla quinta tazzina della giornata (tre, lo confesso, le prendo alla macchinetta a gettoni) mi domando da quanto siamo diventati così dipendenti da una bevanda che ha perlomeno due grossi difetti: il primo è che è indiscutibilmente cara, l’altro è che non è proprio un toccasana per la salute (soprattutto quando lo usi per far diventare di 15 ore la giornata di lavoro).
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Però diciamocelo chiaramente: quel brodino amaro e caldo, se non serve per tenerci svegli a cosa serve? Vi è chiaro il motivo per cui qualcuno prende un caffè d’orzo? O un deca? A me non proprio. Eppure, di surrogati del caffè ne hanno creati di continuo perché tutti potessero bere il loro brodino nero o addolcire l’esuberante candore di una tazza di latte.
Ecco dunque che, in mancanza di caffè “coloniale” (come lo si definiva in tempi di vacche magre), o semplicemente se vivevi in campagna, il caffè lo facevi un po’ con tutto. Il più famoso è senza dubbio il caffè di cicoria (tostata e caramellata), e poi, senza che si dicesse troppo in giro, il caffè si faceva coi lupini e coi ceci, con le castagne e con le ghiande (!), con il malto e con i fichi secchi (usati soprattutto per dolcificare).
Negli anni delle guerre mondiali, per ovvi motivi, hanno prosperato alcune delle fabbriche di surrogati che ancor oggi fanno ululare di piacere gli storici e i collezionisti. Qualcuna è ancora in auge, dovremmo ricordarcene qualche minuto prima di ordinare l’ennesima tazzina.
1. Il Frank-Kafe.
Tedesco e famoso, il surrogato a base di cicoria pura, che si faceva pubblicità con tanto di rivista ufficiale. Importava anche in Italia e si era accaparrato una gran fetta di mercato.
2. Fabbrica Italiana Surrogati.
La risposta della Penisola allo strapotere di Berlino in campo di surrogati non si fece attendere. Il Caffè Italia aveva pure lui la sua rivista in cui i pregi del sedicente caffè erano espressi in una lingua ricca di florilegi: “Le nostre gentili lettrici avranno già notato quale cura noi dedichiamo oltreché alla confezione del prodotto anche all’eleganza dei vari tipi di imballaggio (rivista Il Caffè, 1916).
In poche parole però si diceva: abbiamo un caffè più buono di quello dei tedeschi, e pure più elegante: in tavolette, rotoli e buste. Di malto, di cicoria e d’orzo. E si faceva bella figura con le amiche.
3. Il malto Kneipp.
L’abate Kneipp (più o meno l’inventore delle spa in montagna) suggeriva ai suoi pazienti di sostituire il caffè con il malto d’orzo, per migliorare gli effetti delle cure disintossicanti. E il malto era furbescamente commercializzato in scatole con il suo logo.
4. La miscela Leone.
Celeberrima e ancora commercializzata è una miscela di surrogati del caffè in prevalenza di malto d’orzo. Qualche nonna la mischia ancora alla polvere di vero caffè.
5. L’Ovomaltina.
Un mix svizzero di malto d’orzo, cacao, latte in polvere, uova disidratate e lievito. Peccato in Italia sia stato per lo più sostituito dal semplice Nesquik, era una gran botta di vita.
6. L’Orzo Bimbo.
Un sempreverde che dimostra come alla fine la cultura del surrogato sia arrivata fino ai giorni nostri senza sfiorire poi troppo. Per la cronaca il caffè d’orzo era consigliato dai pediatri, negli anni Quaranta, come rimedio alla diarrea neonatale. Ricordatevelo alla prossima tazza di latte e orzo.
[foto crediti: old towns, italian taste cafè, boxlatta, milocca, farm chair traveling with nikki, newsfood]