C’era una volta il cibo da strada, quello fatto di sapori che ti travolgono come uno schiaffo inaspettato, quello dei baracchini al limite della tolleranza Asl, quello che al primo morso unto ti fa rimpiangere di aver dimenticato i tovaglioli.
C’era, e oggi c’è ancora a giudicare dalle panelle assaggiate l’ultima volta che sono stata a Palermo, ma resta esattamente dove è sempre stato: confinato nei luoghi originali dove è nato, a ciascuno il suo.
Alla Fabbrica del vapore di Milano, invece, c’è Streeat, festival del food truck, ingresso libero, assaggi da tre euro in su.
L’evento è costruito a tavolino per piacere, soprattutto agli irriducibili dell’Amuchina.
Dove vi aspettereste di trovare enormi latte di olio di semi di girasole, ci sono distributori di gel igienizzante per le vostre manine unte.
Da lontano sembrano totem indiani, in realtà quando ti avvicini il profumo degli arancini si mescola a quello molto meno piacevole del disinfettante chimico. Cibo e simil-medicina: corto circuito sinaptico immediato. Mi sfugge qualcosa.
Va bene la raccolta differenziata, i cuochi con il cappellino, e persino quell’alone un po’ troppo “pettinato” che fa evento milanese, ma non era roba sporca, brutta e cattiva lo street food?
Mi sorge un dubbio ulteriore quando, tra una chilometrica coda per la pizza impastata con acqua di mare e un camioncino che propone tartare (ma la tartare è street?), mi imbatto nel ristorante su ruote marchiato Eataly.
Eccolo lì, bello perfettino mentre sforna piadine come se piovesse, proponendo un metodo di pagamento alternativo e altamente asettico. La cassa, infatti, è automatica e si infilano monete e banconote nelle apposite feritoie, mentre un cartello recita “paga con la cassa automatica, avrai lo scontrino e ciò che mangerai ti sarà servito con le mani pulite”.
In tante altre occasioni avrei sperato di trovarmi esattamente in questa condizione, ma qui, qui dove mi aspettavo più odori, più schiettezza (manco l’ombra dello schietto e pure del maritato), qui dove credevo di trovare cibo “alla mano”, trovo mani pulite e perfezionismo salutista.
Il mio giro continua facendo spola da un baracchino all’altro per dimenticare quest’aura da camera iperbarica.
Mi imbatto in un discreto hamburger con majo cipotle, e in una notevole miassa, l’unica che mi sento davvero di consigliare a chi vorrà avventurarsi a Streeat (magari con mascherina igienica alla bocca). Quasi mi sono dimenticata delle perplessità precedenti, quando sono in dirittura d’arrivo.
Nel punto ristoro dedicato al caffè, però, mi sferrano il colpo fatale.
Un cartello al banco recita “non fumare in prossimità del banco”. Chi non fuma ha sempre ragione, si sa, ma tutto questo perbenismo igienico-salutare mi fa pensare di essere proprio nel posto sbagliato. Sognavo un pranzo free, in cui visti i 30 gradi milanesi, avrei potuto togliere le scarpe sotto il tavolo, invece sono finita in un patinato festival delle mani pulite, dove non c’era neanche uno straccio di lampredotto.
E dove, nonostante la sua faccia campeggi gigante all’ingresso, di chef Rubio non s’è visto nemmeno un baffo.
[related_posts]
Va beh, me ne vado, ma non prima di aver reso omaggio ad un coraggioso hipster con gatto griffato al guinzaglio che condivide con lui il suo pranzo, seduto per terra: l’immagine più “sporca” che abbia visto oggi.
Sì va bene, oggi nessuno mi avrà passato microbi e staffilococchi a Streeat, ma che rimpianto i baracchini “luridi”.
[crediti | Immagini: Carlotta Girola, Repubblica Milano]