L’altro giorno il CEO di Starbucks Howard Schultz, un ex belloccio brizzolato e bene abbronzato ha dichiarato al mondo che la multinazionale pagherà l’università a tutti i suoi dipendenti. O quasi.
Funziona così: i dipendenti che lavorano almeno 20 ore a settimana avranno il quarto e il quinto anno di università interamente spesato (circa 10.000 dollari l’anno), per quelli iscritti al primo e al secondo anno è prevista una borsa di studio di 6500 dollari l’anno, il che vuol dire che circa tre quarti della retta sono comunque pagati.
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Ovviamente non vale per tutte le università, ma solo per una: la Arizona State University. E non ho ancora finito: solo per i corsi online.
I corsi online negli Stati Uniti non hanno proprio la fama della università eCampus del Cepu qui da noi, ma ovviamente non sono ancora riconosciute allo stesso livello delle università in carne e ossa, che usano la vecchia storia analogica dei libri di carta e delle aule affollate che sanno di sudore. Infatti, non a caso, con questa operazione le università online puntano a guadagnarsi un certo credito.
L’annuncio del CEO di Starbucks (che settimana scorsa aveva comunicato l’installazione di 100 mila caricatori wireless in 7500 caffetterie della catena per ricaricare le batterie dei propri smartphone senza cavi e gratis) gli ha già fruttato una ripresa in tutte le agenzie di stampa del globo e un’intervista immediata al “The Daily Show” (il David Letterman Show del canale Comedy Central).
Dopo l’annuncio di Schultz alla trasmissione in prima serata, in cui ha sfoderato un sorriso con una quarantina di denti bianchissimi (ma lui non lo beve il caffè?) il presentatore Jon Stewart lo ha guardato negli occhi e gli ha detto, un po’ imbarazzato: “Io per mestiere devo odiare tutti, ma questa cosa qui sembra così amorevole”.
Poi, il povero Jon ha gettato la spugna e ha permesso che l’unica battuta divertente dei 7 minuti di intervista fosse: “Howard, hai delle palle formato venti” (n.d.r. “venti” è la taglia più grande del bicchiere di caffè da Starbucks, mi sono sempre chiesta se lo chiamano così perché corrisponde a venti tazzine di caffè italiano).
O gli diamo il premio per l’agiografia, o decidiamo che si poteva far di meglio. Così ho provato a pensar male, che, come diceva qualcuno, non si sbaglia mai.
Cosa ci guadagna Starbucks con questa mossa?
- In questi anni, con l’estensione dell’assicurazione sanitaria a tutti i dipendenti, anche gli stagionali,e ora, con questa operazione sull’università è riuscito a tenere lontano i sindacati.
- La riconoscenza a vita della Arizona State University. Il presidente Michael Crow si è già lanciato in grandiose sviolinate.
- La presenza alla conferenza stampa di niente meno che Arne Duncan, ministro della pubblica istruzione del governo Obama.
- Più di tutto è riuscito a farsi amare dall’opinione pubblica, ancora più di prima. Lo testimoniano gli urletti di giubilo che arrivavano dalla platea del The Daily Show.
E poi immagino che con i corsi online non c’è modo che i dipendenti possano richiedere dei permessi per frequentare le lezioni. E dato che i tavolini di Stabucks sono praticamente appaltati agli studenti della zona, mi immagino intere file di baristi che si tolgono la divisa e si accomodano al tavolino per approfittare del wifi gratuito e spararsi due ore di lezione online.
E poi, a casa, la notte prima degli esami, che caffè credete che berranno per star svegli? Mi auguro per loro che la scelta non ricada su un Caramel Frappuccino.
Negli Stati Uniti da un po’ le multinazionali fanno a chi la inventa più grossa in tema di università.
Nel 2010 Walmart ha deciso di dare un contributo a tutti i suoi dipendenti che si iscrivevano all’American Public University, guarda caso sempre online.
E McDonald ha dagli anni Sessanta alcune sedi universitarie, questa volta in carne e ossa: la prima è nata in Illinois, ma ce ne sono altre a Tokyo, a Sydney, a Monaco e dal 1989 anche in Europa a Londra. Ai test d’ammissione pare che prendano solo un candidato ogni quindici che si presentano, e oltre ai corsi di matematica e inglese si insegnano pratiche ad hoc come il grill (sic!) e l’amministrazione.
L’anno scorso, l’Economist, dando la notizia del ranking mondiale universitario, suggeriva di farci un pensierino serio sull’università di McDonand, almeno una volta usciti l’impiego è assicurato.
Comunque, prendiamone atto: che ci piaccia o no la dissoluzione del sogno americano ha portato una marea di finanziamenti privati all’istruzione.
Dall’Italia quaggiù queste vette di strategismo aziendale ci provocano lo stesso misto di sconforto e disorientamento di quando, entrando da Starbucks, dobbiamo dire “grande” per ordinare un caffè medio (che resta comunque troppo grande per permetterci di finirlo).
[Link: Starbucks, Arizona State University, L’Inkiesta, Grub Street, About McDonald’s, Economist. Foto crediti: Usa Today, ciselcebbar, delapubmaispasuqe]