Ci sono giorni così: caldi col sole che spacca le teste, dove la brezza è Africa e un trasloco lungo e faticoso disorienta, lasciandoti al centro di un quartiere estraneo, in una città lontana. In quei giorni serve un piatto che sia uno scoglio, un’ancora solida zavorrata ad un fondale di radici. “Portami a casa”: chiedi Portami A Casa, a quel piatto, nel momento in cui la forchetta varca per la prima volta la bocca. In un istante si condensa la vita: qual è per voi quel piatto?
Per me la pasta alla Norma, Catania, Leonforte, Vincenzo Bellini, le terre arse di Ragusa che stillano pomi di sangue, il fritto, tra gli ulivi il Fresco ombroso, una campagna bruciante. Con lei comincerà questa rubrica, che è poi un kit di soccorso golosi con ricetta.
Procuratevi, per quattro persone:
1. dell’aglio rosso di Nubia – una testa, un euro;
2. un litro di ottimo olio extravergine siciliano – se siete in Sicilia usate quello che non manca mai di vostra produzione, dello zio, dell’amico; altrimenti circa 26€/L per il Particella 34 di Pianogrillo;
3. mezzo kg di spaghettoni trafilati al bronzo Benedetto Cavalieri – 3,2€;
4. due kg di pomodori ciliegini di Pachino dolci come lo zucchero – 1,5-2€ nella Terra Promessa, altrimenti moltiplicate per 4;
5. due grosse melanzane del contadino – in Sicilia anche il convenzionale, se ben scelto, sa essere poco convenzionale, spesa 1,8€. Se siete in città optate per il biologico: tra i 4 e i 5€ al kg;
6. basilico profumato;
7. una ‘pezza’ di ricotta salata catanese di pecora – circa 10€/kg per un prodotto di buona qualità. Non lesinate: è l’ingrediente chiave.
Come si fa:
Si taglia a fette lunghe la melanzana, si sala col sale grosso, si lascia a spurgare l’amaro in un colapasta schiacciata da un peso per almeno un’ora – poi si sciacqua, e si tampona con carta assorbente finché è asciutta.
In una grande padella antiaderente si scalda l’extravergine in grande quantità: la melanzana, in poco olio è una spugna ed assorbe tutto il grasso per intero; se immersa adeguatamente invece la superficie si salda in fretta dorandosi e impedendo all’olio in eccesso di impregnare la fetta.
Friggi con attenzione rigirando da entrambi i lati, poi scola su carta assorbente e deponi le melanzane in una pirofila o su un piatto.
Porta a bollore una grande pentola piena d’acqua, aggiungendo poco sale: incidi a croce la testa dei pomodorini e sbianchiscili per qualche istante, scolali e spellali avendo cura di eliminare la buccia per intero; poi passali al passaverdure e trasferisci il succo in una casseruola d’alluminio.
Porta a ebollizione e, a fuoco minimo, aggiungi uno spicchio d’aglio rosso schiacciato e qualche foglia di basilico. Lasci restringere e cuocere, godendoti il profumo, una volta raggiunta una media densità correggi di sale e zucchero, lascia cuocere ancora per qualche minuto, spegni.
Lo zucchero si usa per fingere una dolcezza innaturale: se i pomodori sono giusti, allora non serve.
Cuoci la pasta in abbondante acqua salata, scolala, condisci con la salsa di pomodorino e guarnisci con fette di melanzana fritta, ciuffi di basilico e un’abbondante grattugiata di ricotta salata.
Com’è:
Me lo sogno, il profumo che ti guida nei vicoli d’estate, tra i sassi scalcinati delle pagliere e i bambini in canottiera che giocano al pallone gridando. Travolgente l’odore del basilico come sacro tempio di vegetazione esonderà da corti, bagli chiusi, giardini e vasi lasciati a bagnarsi, pigri, di cielo.
Ed a pranzo, il pomodoro… Quel pomodoro, è una vita di nettari, patema sofferto, di donne sacrificate per la famiglia e per i compleanni dei figli, stracuoce lentissimo sorbendo alcalino alluminio – è memoria crudele perché evita per sempre di tornare, piacere che non ripete, Paganini, egotista ed avaro a concedersi ancora.
Quel pomodoro se n’è andato, nonna mia…
Era un nettare dolce fin quasi al fastidio, ricordo; la spaccatella catanese ben cotta si sfa sotto il dente tagliente, si adagia ammorbidita sotto il palato molle nella sua biforcuta incostanza, rilasciava un sugo – anzi, un succo, un’anima – duci comu u zuccaru mentre l’acredine piccante d’olivo riempiva le nari da dietro, e la seta della melanzana (buccia forte, buccia nera, scivolosa mediterranea regina, e di dentro polposa come lascivia di donne) concedeva quegli ultimi istinti d’amaro ch’erano rimasti.
Un duello avvincente come un’orgia di contrasti sanava il tatto ed il gusto contrappuntata nel suo ostinarsi a sedurmi la gola da punte di salato, di selvatico muffoso ovino – la ricotta di Mario, rustica, autorevole, autarchica dominava l’orchestra dei sensi impazzita.
Un miracolo ripetuto sovente si è estinto – si ripeteva soprattutto ogni ventuno di Giugno – la Norma davvero, rinfrescata da foglie odorose e contornata dai rampicanti di un terrazzo, era un atto d’amore barocco e a tratti superbo; ma nato dal cuore devoto, non una carezza in un pugno.
[Crediti | Tutte le illustrazioni sono di Valentina Campus, immagine pasta alla Norma: Osamu Furusawa]