Sgombriamo subito il campo dall’equivoco autoreferenziale: il tema della sofisticazione alimentare non è una boutade gastro-centrica per esegeti del km 0, bensì una urgenze rilevante. Non mi ci sono mai addentrato per rispetto delle specificità ma questa storia della carne di cavallo, con implicazione last-minute delle polpette Ikea, mi ci tira dentro di forza.
Ora, per chi crede che viviamo in tempi razionalmente organizzati (in termini positivi) guardate questa mappa del Corriere e ditemi se non è demenziale.
Fior fior di economisti vi diranno che le disfunzioni e i rischi fanno parte del sistema.
Ma io se vedo una società come la Findus
1. che richiede le sue lasagne di carne di manzo a una filiale lussemburghese (Comigel)
2. che si rifà a una ditta francese (Spangero)
3. che compra carne a basso prezzo dall’olandese Draap Trading attiva in Belgio dove è stata processata per aver usato cavallo sudamericano
4. che si rivolge a un macello rumeno, usualmente specializzato in carne equina,
5. che ripassa da Spargero prima di arrivare alla distribuzione
mi metto a ridere e basta, con buona pace dei giustificazionisti scritta in punta di penna.
Quelli per cui “i controlli italiani sono rigorosi” e la carne di cavallo trovata nelle Lasagne alla Bolognese confezionate dalla ditta Primia di San Giovanni in Persiceto (Bologna) è il primo test in Italia positivo ai controlli (affronto mica da ridere alla patria del ragù). La risposta istituzionale è alla fine sempre quella del tutto sotto controllo. Come dire: noi non c’entriamo niente e dovremmo allarmarci almeno al quinto o al sesto controllo positivo, sia mai che cadessimo in qualche sentenza anti-sistema. Lo stesso sistema talmente arrogante da proporre soluzioni come quella finlandese, con la ditta Pouttu che chiede di donare le 5 tonnellate ritirate ai poveri, perché “la carne è comunque controllata ed è stato un errore di etichettatura”.
È davvero così? Perché la cosa mi inquieta?
Lo scrittore Massimo Carlotto che aveva già scritto il romanzo d’inchiesta “Mi fido di te” è tornato sull’argomento in una bella intervista a Lettera 43, dove ha affondato ancora sulla de-responsabilizzazione del sistema, con conseguente omertà riguardo al problema (“I giornali non ne parlano mai, altrimenti le grandi ditte tolgono loro la pubblicità”), ma il suo punto risolutivo emerge da questo botta e risposta:
D. Come difendersi?
R. L’unica possibilità è basarsi sulla filiera corta. E poi il consumatore deve essere più informato.
D. Lei fa così?
R. Sì, compro dai gas (gruppi di acquisto solidale), ho scelto sul territorio produttori di riferimento e non prendo mai prodotti italiani che so che vengono da zone inquinate.
Non per forza, ma gli accenti gourmet andrebbero eliminati dall’equazione. Polarizzando la questione del km 0 -ma sarebbe più corretto parlare di filiera corta, come fa Carlotto – si va incontro intorno a uno scontro ridicolo tra fanatismo gastronomico e fideismo industriale e si priva la scelta di un valore etico e di salvaguardia della propria salute. Al netto dei costi economici che sono brutalmente il divisorio tra chi può esercitare delle scelte consapevoli e chi non può, nemmeno volendo.
Non sarebbe il caso di ripensare tutta la questione della provenienza del cibo in un modo più riflessivo, e che molti di noi – me compreso – mettessero da parte un certo fastidio di fronte al Km zero come ostentazione edonistica-alimentare, ma che in realtà racchiude altri valori su cui è difficile stare a discutere. E siccome c’è di mezzo anche Burger King, smettiamola anche di dire che il fast food è sinonimo di mala-alimentazione ma almeno i controlli sui processi sono rigorosi. Evidentemente, non è così.
[Crediti | Link: Dissapore, La Stampa, Lettera 43. Immagini: Gawker, Corriere della Sera]