Chi scrive è un’allergica matricolata al Natale. Del tipo che preferirei passarlo all’Ikea. Se non fosse che l’Ikea AMA il Natale e ci raggranella anche una buona percentuale del suo fatturato annuo a forza di sottopentola a forma di renna e incommestibili biscotti allo zenzero – che però tutti abbiamo comprato almeno una volta nella vita perché la scatola è carina e ci sono disegnati sopra i piccoli aiutanti di Babbo Natale.
Uno degli allergeni più ostinati ha origine nelle cucine di famiglia, regni di un matriarcato che dura tutto l’anno, certo. Solo che a Natale mia madre aggiunge allo stress quotidiano del “Metto qualcosa in tavola” quello speciale delle “Aspettative” e, ove gli ospiti siano in numero maggiore a 6, pure quello corrosivo del “Tutti i cappotti in salotto” e “Arrivo con la prolunga!”.
Forse, uno stratagemma per riconciliare anche i cinici incalliti alle feste comandate sarebbe il ricorso alla semplificazione. Se non nell’apparato, almeno nel menù. Sfrondiamolo dagli orpelli kitsch e defatighiamoci con un semplice bollito. Oppure, epuriamo gli eccessi della tradizione, per fare in modo che anche a tavola ci si immerga in una certa aura di spiritualità, non solo in un’orgia di calorie.
Ecco le voci che depennerò dal prossimo. Madre permettendo, dovreste farlo anche voi.
1) Le tartine con pane in cassetta, tonno uova e maionese. Lo sanno bene le vere cenerentole della tavola festiva. Spremi due tubetti (maionese e pasta d’acciughe), mantechi con burro e Riomare, aggiungi qualche cappero e la trasformazione è compiuta. La mezzanotte però arriva nel piatto: il bordo si ossida prima che riusciate a sillabare bibidibobidibù.
2) Le crespelle ricotta e spinaci o, per fare i sostenuti, nella desolata versione fumé, con il salmone in offerta al Super le uova di lompo e l’immancabile prezzemolata finale, terminale. Va bene che ormai siamo tutti eruditi dalle benedetteparodi ma dopo gli anni Ottanta sono venuti i Novanta, poi il Duemila, tipo.
3) I tortellini ad ogni costo. E ad ogni costo in brodo. Ma, dico, se Natale è la festa dei bambini, perché mandare in vacca l’entusiasmo dei piccini di casa costringendoli a rimestare col cucchiaio nella brodaglia che a loro ricorda la parca mensa di quando avevano la pertosse o il cagotto? Meglio ravioli o cappelletti/acci di qualità sopraffina, meglio al burro. Più semplice, e più gioioso.
4) Le lasagne. Dopo il tortellino in brodo, che al 90 per cento degli italiani risulta sciapo al gargarozzo, lo stesso 90 per cento degli italiani corre ai ripari. E lo fa con lo stile da domenica bestiale che ci rende teneramente caciaroni agli occhi degli altri popoli. La lasagna ti permette di soddisfare ogni papilla, ti brutalizza con la sua sapidità, e soprattutto ti rende candidamente ipocrita: “I tortellini di prima comunque erano davvero delicati, cara”.
5) Il finto filetto alla Wellington. Cioè tutte le sue versioni surrogate, ovvero i “rotoli” di carne cucinati in qualche modo, perché sono più eleganti di una faraona a pezzi. Le fettine, insomma, che, dopo che pure le madri hanno ben studiato il ciuffo di qualche chef in tv, si corredano di spezie improbabili o della qualifica over the top : “in crosta”. Ma farei a meno anche del rassicurante roastbeef con i piselli. Specie se bianco al centro e duro come una soletta da moonboot.
6) Il fritto. Misto. O di sole verdure, per carità. Se servito dopo il bollito, ha la stessa valenza delle lasagne dopo i tortellini in brodo. Come un boato dopo un sussurro. Birrozzo e patatine dopo l’ora del tè. Ma tant’è, lo dicono le cronache quotidiane, siamo i re incontrastati dello sbottonamento.
7) I dolci che non siano quelli comandati. Panettone pandoro e panforte sono la mia triade indiscussa. Certo, ci sono le varianti regionali, rispettabilissime anzi ammirevoli. Ma non passeremo sotto silenzio i tentativi di profanare il rito con: nutella, crema al mascarpone, panna montata. Né, a maggior ragione, di tirar fuori dalla dispensa i Ferrero Rocher. Al volgere delle 16, il celebre languorino lo avremo placato da un tot.
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