Agosto è il mese delle ferie, delle (presunte) file al casello e delle scoperte. Tipo, improvvisamente viene fuori che quel che mangiamo non lo vogliamo davvero: è tutto un complotto.
Tranquilli, il caldo (?) non ci ha dato alla testa, non siamo preda di un’attacco di dietrologia grillina: è solo il momento della scienza.
Uno studio condotto dai ricercatori della Cornell University di New York su 300 pasti, in cui si sono analizzati 200 menù, afferma che scegliamo i piatti in base al nome e alle suggestioni. Immaginazione VS sostanza, in poche parole.
Meno male che ce lo dicono loro: sarà contenta mia nonna a cui è stata fornita legittimità alla sua affermazione perpetua: “tu mangi con gli occhi”.
I risultati rispettano le premesse e si pongono (involontariamente?) come guida allo spennamento del pollo cliente.
Innanzitutto il nome. Mai sottovalutarlo: deve essere invitante e suadente e puntare al nostro inconscio. È stato dimostrato che i piatti evidenziati graficamente, anche con disegni e ghirigori, sono quelli che vengono ordinati di più. Così come quelli che stanno all’inizio e alla fine.
Subito dopo i ricercatori fraintendono il loro ruolo e si dedicano alla piacevole specialità del dare consigli ai ristoratori su come aggirare il cliente spilorcio: niente prezzi a quattro cifre, niente simbolo del dollaro o dell’euro e, mi raccomando, mettere sempre uno o due piatti molto costosi, così che gli altri sembrino più economici.
Le indicazioni geografiche, poi, sono diventate automatismi mentali del ristoratore. Acciughe del Cantabrico e scampi di Santa Margherita sono “espressioni fast-food” che dominano incontrastate le nostre carte.
Condite con un po’ di esterofilia (all’estero sono molto apprezzati i piatti con qualche parola in italiano, suona bene, dicono) e la ricetta perfetta per un menù a prova di gonzo è pronta.
Gli esempi, da noi come all’estero, non mancano e si palesano in piatti come “Alici nel paese delle meraviglie”, “Sotto una coltre colorata” (piatto vegetariano a base di ricotta e verdure), “Iacopo il nero” (carbonara di mare), “Cernia…rentola” (zucca e ravioli di cernia), “La checca sul rogo” (variante della puttanesca: ok, lo so che non è il piatto di un vero ristorante, ma era troppo irresistibile, e poi Tognazzi era un grande cuoco).
Non possiamo che prenderne atto: facciamo ammenda per tutte quelle volte che ci siamo fatti abbindolare da un nome troppo musicale. Che poi le aspettative venissero confermate è tutto da vedere.
Parlo per me e confesso di essere influenzabile. Tipo, se mai dovessi aprire un ristorante, infilerei nella carta dei dolci la “Crême de la crême alla Edgar”, semplice latte che il maggiordomo aveva riempito di sonnifero per fare addormentare gli Aristogatti nel celebre cartone della Walt Disney, ma che nelle mie fantasie di bambina è paragonabile solo al sapore che ho sentito la prima volta che ho assaggiato la crema di mascarpone. Dalla ciotola ovviamente.
Ma sicuramente sono solo io la debole e soggetta alle suggestioni che richiama un piatto, mentre voi siete scaltri e integerrimi, vero? Sicuri?