Da profano, nel settore del marketing, ho sempre pensato che il nome che diamo a un esercizio commerciale, dai ristoranti ai negozi di abbigliamento, potesse contribuire al suo successo.
Un bel gioco di parole, ad esempio, rappresenta un primo elemento di fidelizzazione, perché gradevole e quindi più facile da ricordare. Come in questi casi:
1) Tarlo Magno per un centro specializzato nel restauro di oggetti in legno
2) GuglielmHotel per un albergo
3) Zero zero Setter per un negozio di animali.
E chi non resterebbe colpito da una ditta di imbianchini che si chiama Rulli e pupe?
Nel nostro paese, purtroppo, oltre al marketing e alla creatività, viene troppo spesso accantonato il semplice buon senso. E non mi riferisco soltanto alla vasta schiera di coloro che, per timore di ripercussioni commerciali negative, preferiscono rifugiarsi in nomi del tutto scontati, che ovviamente non offrono all’azienda alcun elemento distintivo.
Alludo al fenomeno, opposto e ancor più inspiegabile, diffuso nel delicatissimo settore della ristorazione, già tristemente noto per la tendenza a fregiarsi di titoli ingannevoli (come l’inflazionatissimo ma irrinunciabile “antico/a”, ostentato anche da esercizi neonati): quello dei nomi negativi.
Nomi, cioè, che evocano ricordi o immagini sgradevoli, perdenti o moralmente condannabili.
E così troviamo Il gatto e la volpe (truffatori per antonomasia), La bettola o La buca (che richiamano una sensazione di inefficienza e sudiciume), Il buon ladrone (dove l’aggettivo buono non cambia il fatto che si tratti di un ladrone), o – ancor peggio – Barabba (che oltre ad essere un ladrone, non era nemmeno buono).
Per non parlare, poi, del funesto eppure frequentissimo L’ultima cena: un nome che, invece di essere toccante, ti obbliga a toccarti.
(Nella foto la trattoria “Pisciapiano Gioia Mia” di Roma, chiunque fosse a conoscenza di un nome più bizzarro non manchi di condividerlo con noi fratelli dell’Internet).