Il pregiudizio è una brutta bestia. Prendete ad esempio il raw food, che detto all’italiana (crudismo) scatena nei più (me compresa) un senso neanche vago di estremismo gastronomico con annesse credenze quali “che cosa mangiano?”, e subito dopo “il crudismo sarà l’ennesimo trend che dura una settimana”.
Le premesse alla mia cena al Mantra Raw Food, il primo ristorante vegano e crudista di Milano e d’Italia, erano di scetticismo non motivato, ma piuttosto radicato.
Arrivata a destinazione scopro che il ristorante si trova a distanza ravvicinata (sulla stessa via, a pochi metri dirimpetto) da Joia, il tempio quasi mistico, vegetariano e stellato dello chef Pietro Leemann.
“Tutto questo salutismo mi ucciderà” penso, soprattutto dopo la non indimenticabile esperienza dal guru svizzero, che mi era costata una rata intera del mutuo e mi aveva lasciata per lo più insoddisfatta.
Il Mantra Raw è piccolo, carino, ricorda un po’ il refettorio dell’asilo con le sedie di formica e i tavolini minuti. Il menu è tutto vegano e tutto composto da cibo crudo, uniche eccezioni il caffè e i cocktail a base di sakè (che si ottiene dalla fermentazione del riso cotto a vapore).
Lo chef lavora all’impiattamento dietro un banco a vista, non ci sono padelle, pentole, fornelli, nulla. Non si sente puzza di fritto, e i profumi di cibo sono leggeri.
Ho letto, cercando motivazioni alla mia cena, che al posto degli elettrodomestici da cottura, qui c’è un laboratorio con una pressa idraulica e un essiccatoio.
Per il resto, è il luogo del “nudo e crudo”: vale marinare, non vale scaldare o cuocere in nessun modo. Già pregusto lo scricchiolio delle verdurine crude, e il pensiero un po’ mi annoia. Anche perché sì, ho fame.
Intanto ordino, e nel frattempo mi guardo intorno.
C’è un piccolo shop interno dove si possono acquistare gli ormai onnipresenti superfood, quelli che ti fanno sentire superman dopo il primo morso, semi strani e sconosciuti, te e i succhi di frutta (e verdura) della casa.
Vengono sponsorizzati come il cavallo di battaglia del Mantra, sono ottenuti dalla pressa idraulica che mantiene intatte le proprietà nutritive. Altro che i nostri frullatori, altro che le centrifughe comprate in offerta, qui non si scherza per niente.
Non sono una fan della foglia di lattuga pressata, mi fa pensare a una dieta forzata e triste, quindi per niente succo. Manco con la pressa più tecnologica del pianeta, grazie.
Tra i 5 primi piatti (tutti tra i 10 e i 14 euro) decido di sferrare subito l’attacco allo chef, sfidandolo su un territorio minato, quello della cacio e pepe.
Prima che qualcuno gridi allo scandalo dicendo che il cacio non si annovera tra le componenti vegane, devo fare una premessa necessaria. Per convenzione, infatti, il menu é carico di ingredienti che si rifanno ai soliti noti, ma che supportano la causa veg.
Il cacio, ad esempio, non è un vero cacio, col formaggio e il latte non c’entra niente, ma lo chef studia sensazioni di texture e gusto che si avvicinano alle originali. Nel caso specifico degli spaghetti di alga kelp cacio e pepe il mio pregiudizio sfiora picchi assoluti. “Sarà soft, non sarà molto piccante, avrà il sapore della plastica simil-tofu”.
E invece.
E invece no, il piatto è coraggioso e abbatte la mia prima barriera: lo spaghetto di alga ha una consistenza a metà strada tra gli spaghetti veri e quelli di soia, il pepe è “prepotente” come un romano de Roma si aspetterebbe, il cacio noncacio amalgama l’insieme come riesce a fare il cacio vero con gli spaghetti veri, le scorze di limone danno un tocco acido senza infastidire.
Insomma, resto sconfitta: è buono.
Lo chef Alberto Minio Paluello arriva al tavolo per chiedermi se va tutto bene.
Mi sbilancio, gli faccio i complimenti perché ci vuole coraggio a proporre al popolo foodie milanese un piatto che si ispira e stravolge un mostro sacro come la cacio e pepe. Mi racconta, mi spiega, e alla fine mi convince ad assaggiare anche altri due primi che secondo lui “vanno assaggiati”.
Arrivano nell’ordine le lasagne di zucchine con salsa marinara e ricotta di macadamia, e poi anche un raviolo al coriandolo con ripieno di kimchi e spuma allo zenzero.
Ha ragione lui: dovevo assaggiarli.
La zucchina è cruda, quindi croccante, e per un attimo temo l’effetto pinzimonio.
La “ricotta” è notevole: decisamente un passo avanti rispetto a qualche ricotta da supermercato che, come dice mia nonna, “non sa né di me né di te”.
Col raviolo, invece, l’approccio è di studio: ne assaggio un angolo minuscolo, con scetticismo agnostico visto che io e il coriandolo ancora aspettiamo il colpo di fulmine.
Dal primo morso ne esco rinfrancata: il coriandolo (dentro la pasta cruda del raviolo) è dosato al minimo, serve più a dare colore che sapore.
L’insieme, con il kimchi del ripieno, la spuma allo zenzero e la salsa al cavolo rosso è decisamente coraggioso, ma anche in questo caso è buono. Direi sorprendente, soprattutto perché a questo punto mi sono dimenticata che sto seduta in un ristorante crudista.
Il fornello non mi manca, sto mangiando bene,
Tra i secondi (12/14 euro) scelgo i calamari di funghi cardoncelli con romanesco di pomodoro e salsa tartara. “Impossibile sfidare una salsa tartara vera, sarà liquida. E poi che mi rappresentano i calamari di fungo?”.
Colpo di scena, al tavolo arriva il classico cuoppo a forma di cono con dei funghetti coppati che hanno la forma dell’anello di calamaro fritto, e sono pure impastellati. Mi prendono in giro? Fanno finta di friggere, quando so bene che qui è tutto crudo?
Mi scoccia un po’, ma anche in questo caso mi devo ricredere. Ovviamente non sono croccanti come se fossero fritti, ma l’impanatura è piacevole e fine, il romanesco di pomodoro (ma si sentono anche peperoni e frutta secca) pulisce il palato, e la sorpresa assoluta è la salsa: nulla da invidiare all’originale.
E comunque, giusto per non farmi mancare niente, voglio assaggiare anche le patatine (che non sono patatine) di cavolo al formaggio (che non è formaggio) a 3 euro e 50.
Ormai ho preso confidenza con il vocabolario crudista vegano, che ammicca di continuo ai piaceri onnivori, li cita e ne cerca le consistenze.
Buone, tra l’altro il sapore ricorda davvero il formaggio, poi mi spiegano che è tutto merito del lievito alimentare.
I vini in carta sono biologici, anche vegani in alcuni casi, e l’acqua viene servita in caraffa con del carbone attivo vegetale che trattiene sedimenti, cloro e altre sostanze inquinanti.
Io, che ormai sono entrata in modalità San Tommaso, sperimento anche uno dei cocktail: CaipiRAWska Mantra, con sake, cetriolo, maracuja, lime e succo d’agave (6 euro). Non so se è leggero o sono io che a stomaco pieno reggo bene, ma è dissetante e non pare neanche alcolico.
Sono ancora seduta a tavola quando mi faccio la domanda (sì, mi capita spesso di parlare da sola). La risposta è “tornerò”. E non intendo “tornerò tra due anni, quando mi tornerà la curiosità”, piuttosto “tornerò presto, e mi porterò qualche amico scetticone giusto per il piacere di fargli rimangiare qualche pregiudizio”.
Non ho più un posticino neanche per il dolce, devo desistere.
Hanno vinto loro, i crudisti vegani. Non lo avrei mai detto, ma ce l’hanno fatta. Per la prima volta non mi è mancata la carne, ma neanche il pesce, e a pensarci bene nemmeno il formaggio.
Mi spingo oltre e dico persino che di fornelli e di spadellate ho fatto tranquillamente a meno, senza che quasi me ne accorgessi. Mi resta l’unico dubbio della stagione, perché in effetti in inverno qualcosa di caldo riesce a fare bene alla pancia e all’anima, e qui di caldo non ce n’è.
Resta il fatto, che un po’ mi rode, che il pregiudizio è una gran brutta bestia.
[Crediti | Link: Dissapore, immagini: Carlotta Girola]