Cosa fa la differenza tra questo risotto alla milanese e uno purchessia? Leggere il post di Dissapore, ovvio

Cosa fa la differenza tra questo risotto alla milanese e uno purchessia? Leggere il post di Dissapore, ovvio

La premessa è la solita: ricetta che fai, varianti che trovi. Dopo avervi stuzzicati e invogliati al dibattito su pesto e spaghetti alle vongole, complice l’autunno incombente, ho pensato fosse il momento buono per parlare di risotto. Per semplicità, e appartenenza territoriale, alla milanese.

Il risotto, come si sa, è banco di prova per gli chef professionisti come per quelli amatoriali, oltre a essere stato oggetto negli ultimi anni di mutazioni (genetiche?) continue. Tante che ormai si fa tutto e il contrario di tutto, con risultati a volte apprezzabili, a volte francamente deludenti. Vogliamo fare un po’ d’ordine?

Riso per il risotto

1. Riso.
Sui giornali di cucina, fra gli ingredienti, spesso è scritto un generico “riso per risotti”: una non-indicazione capace di gettare nel panico i meno esperti. Diciamo subito che i concorrenti in gara sono in genere tre: due superfini, il Carnaroli e l’Arborio, e un semifino, il Vialone Nano.

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Se il primo è “for dummies” perché è davvero difficile scuocerlo, il secondo a mio parere ha una consistenza poco felice. Il Vialone è il più impegnativo, perché occorre controllarlo molto da vicino e toglierlo dal fuoco nel momento esatto in cui è cotto a puntino, giusto un istante prima che risulti sfatto, ma ha una sua cremosità che apprezzo molto al momento della mantecatura. E voi? Qual è il vostro chicco del cuore?

soffritto

2. Soffritto.
Qui mi piacerebbe tagliar corto con una domanda secca: sì o no? Ma naturalmente la questione non è così semplice. Partiamo da chi dice “soffritto no”. In questo caso, il riso lo tostate a secco o nel grasso?

Ci sono poi i “soffritto ni”, che rosolano a parte la cipolla o lo scalogno (i soliti fighi!) e uniscono il tutto al riso dopo averlo tostato.

Per quanti, come me, fanno parte del partito del “soffritto sì”, la domanda successiva è: olio o burro? Io la mia risposta non ve la dico neppure, tanto la sapete già. Quello che posso dirvi è che la fiamma sia dolce, perché il fondo non deve assolutamente prendere colore.

Non posso concludere questo punto senza parlarvi del midollo. Quando riesco a passare dal mio macellaio-pusher e a farmene dare un pezzetto, è una vera gioia. Lo aggiungo, come da tradizione, nella fase del soffritto, ma l’ho anche visto rosolato a parte e trasformato in guarnizione finale. Una variante che ho trovato apprezzabile.

Aggiungere il vino al risotto

3. Vino.
Quale che sia la tecnica adottata per tostare il riso, la sfumatura con il vino è importante per donare acidità al piatto (a meno di non usare il burro acido, vedi punto 6), e quindi dovrebbero farla tutti, tranne chi non ha una bottiglia di bianco in casa.

Posto che nessuno di voi usi vinacci scadenti o, peggio, che sanno di tappo (il sughero è fra gli aromi più persistenti che conosca), ditemi: ce ne è a vostro avviso uno che vince su tutti gli altri nell’abbinamento con lo zafferano?

Brodo di pollo

4. Brodo.
Il mio preferito è quello di pollo, solo appena sgrassato. In barba a chi cerca la leggerezza a tutti i costi, credo infatti che sia proprio la grassezza (certo, non esagerata) una delle caratteristiche migliori di un buon risotto, che al palato deve essere morbido e suadente.

Brodo di manzo o vitello mi appaiono troppo carichi, quello di verdure troppo scialbo. Chi “tira” il risotto con la sola acqua, nonostante la categoria annoveri diversi nomi eccellenti, tenderei a non prenderlo in considerazione.

Sbaglio?

Risotto allo zafferano

5. Zafferano.
Stimmi o polvere: non dovrebbe esserci storia e la scelta cadere sempre e solo sui primi. Ma nella cucina casalinga (il risotto d’inverno lo faccio anche due o tre volte a settimana) la bustina vince per convenienza. Del resto, sono sicura che in molti (sì, anche cuochi di ristorante particolarmente attenti al food cost) usino la polvere e poi gli stimmi, giusto una presina, solo a guarnire.

Detto questo, qual è il momento giusto di aggiungerlo? A me hanno insegnato a scioglierlo nell’ultimo mestolo di brodo, e così faccio.

Mantecatura risotto alla milanese

6. Mantecatura.
È il passaggio più delicato, il momento cruciale in cui il riso diventa un risotto. Che – ricordate? – deve essere morbido e suadente. E con la giusta grassezza.

Caratteristiche che vengono perfezionate incorporando, fuori dal fuoco, burro freddo di frigo e parmigiano appena grattugiato.

Attenzione: la cremosità del risotto non dipende dal fatto che sia più o meno all’onda. Io, per esempio, lo preferisco un po’ sostenuto, quindi verso la fine sono parsimoniosa con il brodo.
A fare la differenza è proprio la mantecatura, procedimento necessario a legare ingredienti e sapori, armonizzandoli.

C’è chi la fa con il burro acido di scuola marchesiana, unico caso in cui il soffritto decisamente non va (il burro acido contiene già l’aroma della cipolla o dello scalogno). Chi manteca con l’olio (ma cos’avrete poi, contro al burro?), chi solo con il formaggio, chi non lo fa affatto e scodella montagnole di riso asciutto (no comment).

Fra varianti e veri e propri errori, ce n’è un ultimo da non commettere: servire il risotto appena tolto dal fornello.

Sì, lo so, la fame a volte chiama, o lo fanno i vostri famigliari, già seduti a tavola, forchette in mano.

Voi ignorateli, coprite la casseruola e aspettate 2-3 minuti: un piccolo riposo durante il quale si compierà l’ultima magia. Il risotto perfetto è pronto.

[Crediti | Link e immagini: Dissapore, Scatti di Gusto]