Dell’apertura ne avevano parlato davvero tutti, avevo letto commenti tanto entusiastici che i miei acufeni suonavano la intro di “Dancing Queen” degli Abba solo a sentirne pronunciare il nome: Carlo e Camilla in Segheria.
Di recente, spenti i calori da anteprima e novità, ho trascorso qualche mezzora sull’Internet a cercare recensioni di chi ci avesse mangiato per davvero, ma poca roba.
Omertà totale: okay il locale postindustriale, okay le porcellane di Richard Ginori, okay Cracco e suo cognato Nicola Fanti che son soci, okay che è un locale low cost (attenzione ai tempi narrativi), ma – mi chiedevo – come si mangia?
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E’ stato per sanare questa curiosità che l’altra sera ho voluto provare la più scintillante novità della ristorazione milanese (li sentite anche voi gli Abba?). E ne sono rimasta delusa.
Metto a vostra disposizione il racconto della mia serata e metto anche in discussione il mio giudizio, provvisorio perché basato su una sola cena colma di aspettative, pronta a ricredermi non appena qualcuno mi convincerà che quella che non ha davvero capito sono io.
Il locale non mi è nuovo, lo avevo già visto in occasione di Le Grand Fooding 2012, quando c’erano gli chef tatuati e fummo attaccati dalle zanzare, ma è davvero un bel posto. Riconosco subito il tavolone centrale e unico a forma di croce che avevo visto in foto, quello che – hanno scritto un po’ tutti – dovrebbe favorire la convivialità e l’incontro.
Noto difatti il timido entusiasmo milanese e la rinomata voglia di socializzare: dopo un “salve” di rito, ognuno cerca di concentrarsi sul proprio dirimpettaio che chiacchierare in un ambiente così ampio e con musica di sottofondo non è facilissimo. Fanti, che è di Santarcangelo di Romagna, deve aver pensato di importare dalla sua terra lo spirito conviviale tra commensali e gli auguro di riuscire nell’intento.
Mi piace molto la scelta delle porcellane e l’assenza di tovaglie, mi piace meno la scelta del tovagliolo di carta. Un tovagliolino a dir la verità, di quelli così sottili e così volatili che entro la fine della cena ti devi chinare a raccoglierlo almeno una decina di volte. Noto anche, e non mi piace lì accanto a raffinate porcellane, la bottiglia di plastica dell’acqua.
Poi arriva il menu, e sul low cost (di tutti tutti avevo scritto) mi ricredo: antipasti e primi piatti a 15 euro, secondi 22-24 euro, dolci 9 euro. I vini costano 20 o 29 euro, i cocktail 9 euro.
Io e la mia commensale ordiniamo: Omelette con baccalà, piselli e gruè di cacao (15 euro), Spaghetti, alici, cipollotto, lime e caffè (15 euro), Ravioli di carciofo e formaggio di fossa (15 euro) Degustazione delle tre carni – reale di manzo, pancetta di maiale e stinco di vitello (24 euro).
Ordiniamo una bottiglia di vino, anche se dalla carta è lapalissiano che l’intento sia quello di farti pasteggiare con un cocktail. Originale l’idea, ma nessuno dei nostri vicini lo sta facendo, dunque neanche noi. Prima della fine della cena il nostro Riesling Langhe di Ettore Germano (20 euro) si sarà trasformato in vin brulé perché i secchielli (o altri aggeggi di design) non si son visti.
L’omelette al baccalà (molto poco saporita) e gli spaghetti (un filo troppo cotti) non ci lasciano stupefatte. Forse privi di personalità, sicuramente privi di origine: chiediamo ai ragazzi del servizio – giovani e un po’ impacciati sebbene volenterosi – quale pasta sia stata usata, ma tutt’oggi non sono completamente sicura della risposta che ci hanno dato dal momento che se la sono rimpallati in tre.
Arriva poi un piatto sul quale sono molto ferrata: i ravioli con il formaggio di fossa, che immagino essere un ruffiano omaggio alla Romagna. Mi torna in mente un passaggio in una di quelle recensioni che avevo letto prima di arrivare qua: “la presentazione del piatto punta più alla sostanza che alla sorpresa.”
Bè, se la sostanza è pochina (i ravioli sono 7, non è mia abitudine far di calcolo, ma capisco che ogni raviolo costa più di 2 euro), la sorpresa non è un granché. Ogni piatto toccato dal formaggio di fossa – a mio modestissimo e imparziale parere – è potenzialmente un grandissimo piatto, in questo caso non posso dirlo.
La degustazione di carne è quello che mi è piaciuto di più.
Punto al dessert, ma ho quella malsana abitudine di ordinare il mascarpone ogni volta che in un menu leggo “Mascarpone”. Sbagliato: il Semifreddo al mascarpone e sesamo nero (9 euro) è ridicolmente minuscolo e per niente confortevole. Meglio il Petits pots di cioccolato al latte e fave di tonka (9 euro) che ha ordinato la mia commensale.
Al momento del conto mi ricordo nuovamente di quella cosa del low cost che avete scritto proprio tutti, e mi ricordo che sulla pagina Facebook del locale scrivono che “si potrà mangiare a circa 50 euro”. Ve lo dico io cosa si mangia con 50 euro: un primo piatto e un dolce minuscolo, mezza omelette e mezzo piatto di carne, mezza bottiglia di vino e una bottiglietta di acqua.
E poi penso, ma davvero vi basta?
Vi basta un ambiente bello e postindustriale, le ceramiche fuori produzione, lo chef famoso che riecheggia in lontananza (se per questo Cracco firma anche il menu del FrecciaRossa, ma non mi sembra vi siate strappati i capelli dall’eccitazione, o sbaglio?), un ufficio stampa che ci ha saputo fare, l’illusione di spendere 50 euro (ma davvero per voi 50 euro è una cena low cost?) e mangiare piatti non completamente soddisfacenti, vi basta questo per cantare la fighezza di un locale?
Fatemi capire, cosa esattamente non ho capito?
[Crediti | Link: Dissapore, Soundcloud. Immagini: Golden Backstage, Martina Liverani]