Eboli ha un destino curioso: esiste sin dalla preistoria ma è famosa unicamente per il titolo di un libro che non ne parla e la usa solo per meglio definire la sperdutezza di Aliano, un paese della Lucania dimenticata da Dio.
Nel ’43, quando Carlo Levi scrisse il memoir della sua esperienza al confino, a Eboli terminava la ferrovia e finivano le strade. Oggi è un casello sull’autostrada, tappa obbligata per chi visita Paestum o va a comprare le migliori mozzarelle d’Italia, prodotte e vendute tra Battipaglia e Capaccio Scalo, nella fertile piana del Sele.
Parliamo di Eboli perché vi si trova un ristorante più che consigliabile, oltretutto ideale per le soste di viaggiatori afflitti dalla cucina di autogrill e ristoranti la cui caratteristica più notevole è il parcheggio custodito, non certo il cibo.
Il Papavero è ai margini del centro storico della città, circondato da suggestive abitazioni diroccate, con floride piante di fico nate nelle crepe. Il genere di edifici di cui tesse l’elogio Roberto Peregalli nel suo saggio contro il gusto slavato della contemporaneità, I luoghi e la polvere.
Si entra nel ristorante da una corte-giardino dove è parcheggiata a mo’ di arredo un’Apecar prima edizione, col cassone pieno di vasi di fiorellini. L’interno ha la distribuzione di un ampio appartamento borghese, quale era in origine, e i trentacinque coperti sono distribuiti nel susseguirsi di stanze, ciascuna con uno o due tavoli. Gli arredi sono un gradevole cocktail di mobili di design, modernariato da rigattiere e soluzioni da scenografo.
In cucina ci sono Fabio Pesticcio e la pasticcera Lilli Tudorache, seguiti dal patron, Maurizio Somma, un virologo che si occupa di sterilità. “Il ristorante l’ho voluto per curarmi una malattia,” dice per spiegare come mai si sia creato un hobby tanto impegnativo.
Il menu è infatti costituito da un bouquet di piatti molto ricercati, sia nella concezione sia nell’esecuzione. Eccellente il bigné fritto con gamberi rossi crudi, su una base di passata di zucchine e pesto di olive. Il mio preferito è il “peperone dentro e fuori”, cioè un peperone smontato e rimontato servito con pane alle mandorle. La spiegazione è cervellotica, molto meglio gustarlo e informarsi dopo.
Va assaggiato anche “seppia e piselli”, variazioni sul tema della seppia (cruda, saltata, il fegato, il nero) poggiate su una emulsione di taccole. Ben riusciti i fusilli lunghi con croccanti asparagi di mare e vongole sgusciate, e il gustosissimo risotto con fichi bianchi del cilento, pistacchi e provola. A seguire, spigola affumicata con variazione di broccoli, e agnello di Rapone al timo.
Difficile spendere più di 40 euro: è il costo del menu degustazione di 5 portate e dessert.
[Crediti | Dalla rubrica “Cibo e Oltre” di Camilla Baresani su Sette, inserto del Corriere della Sera]