INCISO 1 [Più che per l’esperienza gastronomica in sé, il ristorante Minokichi all’interno del Padiglione Giappone è stato uno dei primi casi di Expo 2015, e per casi intendo quelli da portafogli. Lo scontrino di una cena da 115 euro a commensale, infatti, aveva scatenato le polemiche di chi all’Esposizione credeva di mangiare solo a buon mercato].
Centotrenta euro per una cena in Giappone, andata e ritorno compresi. Devo contenere la frenesia collettiva del “dove si clicca?”, perché in realtà ero solo al Padiglione Giappone di Expo, anche se vi giuro che sembrava Giappone vero, o almeno quello che mi immagino possa essere, visto che là non ci sono ancora stata.
INCISO 2 [Sì, anche quelli che non sono mai stati in un luogo ne possono almeno avere un’idea, personale e realistica solo in parte, ma pur sempre un’idea. Quindi qui di seguito troverete la mia personale visione di una cena tradizionale dell’area di Kyoto, anche se Kyoto l’ho vista solo su Youtube.]
Il racconto della mia serata al Minokichi sta tutto nel doppio punto di vista da cui lo si può leggere: essere in loco per davvero o fidarsi di un surrogato che per ambientazione lo ricordi. [related_posts]
Il Minokitchi, uno dei ristoranti giapponesi più antichi (frequentato dalla famiglia imperiale, mi ci vedo le fotografie dei vip alle pareti come nelle trattorie di Marzamemi) è una sorta di istituzione nazionale, tanto che alla fine si è trasformata in una catena e oggi sono 16 i ristoranti attivi.
Sulla soglia, quando tutti i marsupi degli occidentali sono ormai alle spalle, non si vedono che occhi a mandorla. Tutto il personale viene dal Giappone, tutti s’inchinano e sorridono, tutti sono vestiti con abiti tradizionali.
Ho trovato posto nella saletta privata implorando al telefono: i posti sono solo 22, ma alla fine hanno fatto un’eccezione perché era il compleanno di un’amica, e credo di aver loro fatto intendere che mi sarei buttata da un ponte (questioni di traduzioni, non di harakiri).
La saletta è spoglia ma calda, impersonale eppure elegante. A noi (tre commensali) vengono dedicate due persone per il servizio. Parlano italiano, sorridono tantissimo, ma comunque hanno un servizio che non risponde alla regola dell’invisibilità. Sbirciano dalla porta scorrevole, vanno e vengono di continuo, e stanno sempre facendo qualcosa che in qualche misura ti coinvolge, fosse anche per la risatina che accompagna lo riempimento del bicchiere.
Abbiamo scelto il menu base “per poveretti”, il Kaiseki Hana da 110 euro (ce n’è anche uno da 180 e il top dei top da 220).
Per Kaiseki si intende un pasto tradizionale giapponese composto da molte piccole portate (talmente tante che non si arriva in fondo leggendo il menu) servite in una particolare sequenza che ha tutte le sue logiche: dopo i sapori forti arrivano le zuppe per ripulire il palato, le verdure sono di stagione, il dessert è sempre freddo (per non dire ghiacciato).
Un tipo di menu che, ci spiega il nostro cameriere, viene consumato in patria solo in occasioni particolari, quasi mai a casa, anche perché il cuoco di turno dovrebbe iniziare a preparare con una settimana di anticipo, dato il numero di portate.
Si inizia con quello che per noi potrebbe essere amuse bouche: gelatina di foie gras alla giapponese e asparagi verdi.
Antipasti – Si continua con piatto, di quelli che un po’ ti dispiace mangiare tanto è bello: la selezione di antipasti (stufato di anguilla al pepe giapponese; rotolo salmone e formaggio con gambero alla griglia; omelette speciale; funghi shiitake impreziositi con pasta di noci, edamame e cetrioli serviti in guscio di limone).
I cetrioli all’interno della pasta di noci sono tagliati così fini che sembrano fili d’erba, il fungo è saporitissimo, e nel complesso risulta un piatto talmente ricco di sapori da non capirci più niente (in senso buono, ma anche nel senso che devi tenere il menu a portata di mano per spiare ogni tanto cosa potrebbe essere questo o l’altro bocconcino).
Momento zuppa 1 – zuppa di dashi con orata in frittura speciale, carote, alga wakame, zenzero e porro. Il dashi è un brodo leggero, ma saporito (e nel nostro caso anche decisamente profumato) preparato con alga kombu e bonito essiccato: la base della cucina giapponese.
Sashimi – orata profumata all’alga kombu, capasanta scottata, tonno scottato con contorno di daikon, carote e zucca a julienne. Non manca la scodellina di salsa di soia e un pizzico di wasabi, come ci hanno insegnato i ristoranti giapponesi in Italia.
E già che ci siamo, chiediamo come si dovrebbe agire per mescolare il tutto, ma senza fare la figura dei burini.
Il wasabi va spalmato direttamente sul pesce, poi il pesce a sua volta immerso dall’altro lato nella salsa di soia. In questo modo, ci dicono, si evita il gesto poco elegante dello spiattellamento del wasabi nella salsa, e inoltre la salsa resta “pulita” in modo da poter ammirare il disegno sul fondo della ciotola.
Frittura – Tempura di gamberi e orata (per la frittura viene usato l’olio di camelia di Oshima) con condimento speciale a base di dashi. La prima volta in vita mia che posso dire senza timore di smentita una “frittura profumata”, e pure incredibilmente buona.
La ragazza ci spiega che si usa quest’olio prezioso solo in occasioni speciali, visti i suoi prezzi. Per il resto dell’anno, l’olio di camelia di Oshima viene usato solo per trattamenti ai capelli delle signore giapponesi che possono permetterselo.
(Ari)pesce – Ricciola alla griglia marinata in salsa yuanji. Ci spiegano che la marinatura dura almeno 24 ore e avviene in sake dolce, miso e salsa di soia. La ricciola si deve spezzare in piccole parti con le bacchette, è carnosa e molto saporita.
Carne – Bistecca di manzo giapponese (il mitico wagyu) ai ferri, con salsa teriyaki, contorno di pomodori grigliati e condimento di salsa di miso e ponzu.
La carne si scioglie letteralmente in bocca, peccato non averla potuta assaggiare anche “liscia”.
Sushi – anguilla, orata profumata all’alga kombu e tonno serviti con wasabi e zenzero marinato in aceto dolce. Il sapore più deciso è quello dell’anguilla, poi viene l’orata e il tonno, sinceramente, sapeva di pochino.
Ma la meraviglia viene dallo show in allegato: lo chef Yoshihiko Horimoto, tra mille inchini e parole incomprensibili, prepara il sushi davanti a noi con una velocità degna di un supereroe dei manga.
Il tutto dura pochissimo, giusto il tempo di avere la conferma dal cameriere che lo chef è uno dei pochi ad avere il patentino nell’area di Tokyo per trattare il fugu (il pesce palla, quello che se non fai attenzione “potevi morire!”).
Momento zuppa 2 – Zuppa di miso rosso con tofu. Nulla da dichiarare, se non che sembrano tutte incandescenti, ma poi alla fine non lo sono affatto.
Dolce – Kakigoori (granita giapponese) al matcha (te verde), al Kuzu (il bergamotto giapponese), e al kokuto (zucchero di canna). Ovviamente le assaggiamo tutte e tre, da bravi commensali in gita esperienziale.
Buonissima quella allo zucchero di canna (che non è così dolce, anzi ricorda il sapore della liquirizia), buona quella allo yuzu, mentre quella al te verde è incomprensibile: sa di mare, ma pure un po’ di taccola (li vedete i punti interrogativi sulla mia faccia, vero?)
(Ari)dolce – Matcha servito con dolci mignon tradizionali giapponesi (il nostro dolcino era una mousse molto compatta alla castagna). Anche in questo caso, si tratta di una dimostrazione pratica.
Il te verde in polvere viene trasformato in una bevanda che potrebbe ricordare esteticamente il nostro cappuccino, ossia con una bella schiuma sopra. Solo che è verde. Solo che è amaro. Solo che non riesco a berne nemmeno la metà.
Però, bisogna dirlo, la ragazza ha un’eleganza senza pari nel mescolare fortissimo l’intruglio con un oggetto che assomiglia ad un pennello per la barba dei nonni.
Qualche dritta:
– il vino bianco giapponese a 40 euro non è che mi abbia proprio convinta, per non dire che non lo rifarei;
– guardate sempre sul fondo delle ciotoline, che loro ci tengono;
– portatevi i biglietti da visita, che in Giappone funziona così, anche quando viene lo chef a farvi il sushi, e ricordatevi di ricevere il loro biglietto con due mani (ora faccio la splendida, ma me lo hanno detto dopo e naturalmente era tardi);
– per fumare una sigaretta bisogna uscire proprio dall’intero Padiglione: un sottile metodo per farti capire che ci tengono alla tua salute;
– appena usciti dal padiglione Giappone potete trovare 20 posti nel raggio di 100 metri che fanno l’espresso;
– non temete: i piatti sono tantissimi, ma ci si alza dal tavolo senza zavorre assassine.