Nel 2011, in Italia, sono venuti a mancare circa 9000 ristoranti. Nessuno di noi gourmet morirà di fame: i locali continuano a essere molti, forse troppi, e i momenti di grave crisi servono se non altro a sfoltire chi s’improvvisa in un’attività che non può più essere gestita alla carlona. Aprire un ristorante è come creare un’azienda: non si può farlo d’impeto, solo perché si è appassionati di cibo o perché sembra più avvincente che vendere condizionatori.
Tuttavia la crisi sta mettendo in difficoltà anche ristoranti-azienda seri e meritevoli. Quando segnalo locali nella fascia di prezzo che va dai 70 ai 130 euro, qualche lettore protesta. Ma non credo che si lamenti quando si parla di vestiti, di scarpe, di creme, di auto, di viaggi in località lontane: il cibo viene percepito come un diritto, anche al ristorante, e perciò il fatto che costi caro mette di malumore.
Personalmente preferisco di gran lunga un solo signor pasto in un ristorante bello e buono, dove affino il gusto, scopro le novità, mangio il meglio e ben servita, che 3 o 4 pasti in certi locali che viaggiano col pilota automatico e usano materie prime di risulta. La parola “caro” (che implica il sospetto di guadagni esorbitanti sulla pelle del cliente), usata spesso per definire i migliori ristoranti, andrebbe sostituita da “costoso”.
Non è il ricarico ad alzare il prezzo, ma i costi di personale, ricerca, affitto, ingredienti. Cari, carissimi, sono molti ristoranti e pizzerie della fascia 40/70 euro, con pochi addetti, materie prime di batteria, menu fossilizzati e un gran giro di tavoli.
Una strada innovativa l’ha individuata Davide Oldani, del D’O a San Pietro all’Olmo. Dopo un lungo apprendistato dai più grandi chef, Oldani ha scelto di proporre piatti cucinati con le tecniche dell’alta cucina ma usando solo ingredienti di stagione e del territorio, in un locale semplice, in modo da abbattere i costi. È quella che definisce “cucina pop”, dove pop sta per popolana, un modo di rendere accessibile quello che di solito si apprezza in ristoranti ben più costosi. Al D’O si spendono dagli 11,40 ai 45 euro. Naturalmente c’è la coda, che però è dovuta in parte alla straordinaria bravura di Oldani nel promuovere la propria intuizione. Il D’O è un esempio di capacità gestionale che molti stanno provando a copiare.
Nel nuovo libro di Oldani, Il giusto e il gusto – l’arte della cucina pop (in libreria a giorni) si parla dell’etica in cucina, cioè di rispetto dei collaboratori, degli ingredienti, dei fornitori e, ovviamente, dei clienti.
L’etica del consumatore, invece, dovrebbe essere quella di pretendere il meglio, in ogni fascia di prezzo.
[Crediti | Dalla rubrica “Cibo e Oltre” di Camilla Baresani su Sette, inserto del Corriere della Sera. Immagine: Panorama]