Davide Scabin: critici di tutto il Paese omologatevi in nome dell’Italia

Davide Scabin: critici di tutto il Paese omologatevi in nome dell’Italia

Lo scenario futuribile che stiamo per evocare non è frutto di uno sceneggiatore hollywoodiano con il pallino per la gastronomia, ma l’incubo ricorrente di Davide Scabin, chef del Combal Zero. Non esattamente l’ultimo degli sprovveduti, insomma.

Se un ricco magnate venisse in Italia, in quattro e quattr’otto, potrebbe acquistare l’interno mondo enogastonomico italiano. Potrebbe comprare i 20 ristoranti che contano, le due case editrici, Eataly, due portali e con diciamo 5 miliardi, controllerebbe il gotha del cibo e cancellerebbe un’intera storia di tradizioni culinarie e di amore per la cucina”.

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Durante la festa di presentazione delle Guide EDT (I Cento di Torino) che si è tenuta ieri al Golden Palace di Torino, Scabin ha espresso il suo particolare punto di vista sulla critica italiana. Molto particolare.

Secondo lo chef piemontese i critici italiani hanno un primo, fondamentale problema: sono poco uniti.

“Qui continuiamo ad avere il nostro problema di campanili, dove litighiamo tra noi per difendere singole realtà”.

Un magma di guide-guidine-guidone, gruppi e gruppuscoli di critici che battibeccano tra loro, incuranti di quello che sarebbe davvero importante: l’immagine della cucina italiana che esportiamo oltreconfine. Che mi pare più la preoccupazione di un settore, piuttosto che di chi è chiamato a giudicarlo.

“Il futuro della cucina italiana e degli chef è in mano alla critica. Se si riuscisse ad avere una visione dall’alto e d’insieme si potrebbe costruire un’identità utile ad esportare il nostro brand/paese all’estero”.

Mi sembra una considerazione un po’ eccessiva del ruolo dei critici. Ma cerchiamo di capire meglio cosa dovrebbero fare secondo lo chef.

1) Unirsi. Fare rete. Fare sistema. Insomma, ci siamo capiti. Soprattutto in vista dell’EXPO 2015: a cui, dice Scabin, bisogna arrivare preparati. Compatti e agguerriti, se non vogliamo sparire davanti agli chef provenienti dall’estero: la nuova ondata di sudamericani, i battaglioni nordeuropei, gli schiacciasassi statunitensi. “I critici devono essere connessi gli uni con gli altri, sono molto più connessi gli chef tra loro che i critici oggi”. E ancora, motivazionale come pochi: “È l’Italia intera che andrebbe comunicata”.

2) Innovare. Reinventarsi. Guardare al futuro. Ci siamo capiti pure qui. “La critica deve cambiare, deve trovare una nuova ragion d’essere, una nuova spinta utile per rendere la cultura del cibo italiano un unico forte movimento“. E ancora: “Bisogna creare una mediazione contemporanea, non buttare via la tradizione delle ricette della nonna ma avere il coraggio di fare un pensiero nuovo”.

Come questo debba farsi, non è ben chiaro. Bisogna creare “occasioni di scambio e confronto” tra le diverse generazioni di chef, ad esempio. Perché gli chef, giustamente, hanno il loro da fare in cucina.

“Gli chef senza la critica non sono nulla ma non possono occuparsi pure di questo. Gli chef già si occupano di tante cose oltre il cucinare. È obbligo degli chef quello di stimolare la critica e gli chef non possono ignorare il web, non si può dire che il web non conti, certo ci vuole più esperienza ma il web può dire la sua”.

Al di là dell’autoriferimento continuo al termine “chef” che psicologicamente dice qualcosa di allarmante, qui mi serve un momento di pausa. Fatemi capire se ho beninterpretato le parole di Scabin.

Nella mia giovanile ingenuità, ero convinta che il compito dei critici fosse essenzialmente uno: recensire i ristoranti, giudicando la cucina degli chef, premiando i meritevoli e consigliandoli ai lettori. Questo dovrebbe essere lo scopo principale del loro lavoro.

Scopo dal quale, lo sappiamo, spesso prendono qualche piacevole deviazione più o meno criticabile. Stringendo amicizia con gli chef, ad esempio, o partecipando ad eventi. Conseguenze quasi inevitabili della permanenza nel settore gastronomico. Che alcuni, Valerio Visintin su tutti, evitano mantenendo segreta la propria identità, limitandosi così a svolgere il solo servizio ai lettori.

Davide Scabin sembra invece suggerire il pensiero unico: dobbiamo tutti pensare e volere le stesse cose in ragione di un bene superiore: l’Italia. Questo è il cambiamento che Scabin chiede alla critica. Cosa che, detta nel paese delle collusioni, del giornalismo equilibrista e della modesta onestà intellettuale, suona davvero come una curiosa accusa.

Altrimenti perché mai i critici dovrebbero occuparsi di creare “occasioni di scambio e di confronto”? O impegnarsi ad avere “una visione dall’alto e d’insieme”? E l’essere “connessi fra di loro” non porterebbe a un appiattimento dei giudizi e a una perdita di confronto?

[Crediti | Link: Food Confidential, Mangiare a Milano]