Ce n’è per un bel pranzetto. Fiorucci, azienda romana di salumi che conosciamo tutti se l’è comprata Campofrio Food Holding. Spagnola. Peroni, birra bionda e già italianissima è ormai sudafricana. I torroni Pernigotti sono turchi. Parmalat e Galbani appartengono a Lactalis, Perugina e San Pellegrino a Nestlè. Che si era già presa Buitoni e Antica Gelateria del Corso.
Ora succede che il gruppo Ebro Foods, già proprietario del 25% di Riso Scotti, compri il 52% dell’antico Pastificio Lucio Garofalo di Gragnano. “La tavola Made in Italy parla spagnolo“, titola La Stampa. Ma si può anche dire che in Spagna c’è voglia d’Italia. E di rilancio.
AGGIORNAMENTO delle 20. Poco fa su Twitter, probabilmente con questa notizia in mente, il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina ha lanciato l’hashtag #iomangioitaliano (roba che fa venire voglia di andare da McDonald’s seduta stante)
Stasera il @MipaafSocial sarà in campo con la Nazionale per la campagna #iomangioitaliano Difendiamo i nostri prodotti di qualità!
— maurizio martina (@maumartina) June 4, 2014
Mentre aspettiamo di capire se anche da noi ci sia di nuovo fame di crescita o se prediligiamo le chiacchiere ai fatti, molte aziende continuano a diventare estere. Specie nel settore a noi più caro.
Ora, premesso che il nazionalismo in generale – e quello economico nello specifico – non rientra tra i miei assilli e che preferisco un settore vivo con soldi esteri a un settore agonizzante con soldi nazionali, cosa insegnano le acquisizioni come questa da parte degli spagnoli Ebro Foods?
Di sicuro ci insegnano che Ebro Foods non se la passa malissimo.
E che la logica semplificatoria e molto giornalistica del “é dramma: stiamo svendendo il meglio della nostra economia nazionale” ci nasconde parecchie cose su come gira il mondo e l’economia.
Da qui il ritorno alla mia precedente affermazione, provocazione se preferite. Cosa cambia se Garofalo passa sotto mani iberiche?
A leggere le notizie scopro che l’investimento è di 62 milioni di euro e spiega l’ad di Garofalo Massimo Menna in un video:
«Non si tratta di un pezzo di Italia che se ne va, perché l’azienda e sana e forte e questo l’ha messa nella posizione ottimale per cogliere la migliore opportunità di crescita».
Ma i video e i comunicati stampa esistono per sintetizzare e rassicurare. Avete mai letto un comunicato stampa su Dissapore?
A seguire, invece, un operatore, il presidente di Coldiretti Roberto Moncalvo:
«Con la vendita della pasta Garofalo agli spagnoli, supera i 10 miliardi il valore dei marchi storici dell’agroalimentare italiano passati in mani straniere dall’inizio della crisi».
Che sono comunque solo dati, per quanto significativi, che raccontano le due facce di un settore comunque tutt’altro che agonizzante. Vi assicuro, ad esempio, che l’essere stato di recente a un salone come Cibus, non mi ha fornito esattamente la sensazione che l’agroalimentare italiano fosse in sofferenza.
Ma il dubbio sulla questione iniziale rimane. E ho pensato di risolverlo andando alla fonte, in uno dei miei rari momenti di sana e pedagogica informazione.
Garofalo ci ha spiegato la natura di questa scelta. Ci ha detto tante cose, ma la sostanza è che per quanto possa essere suggestivo gridare alla debolezza economica nazionale e parlare di svendita del Made in Italy è in atto un’operazione diversa per lo sviluppo del marchio.
Che porterà l’ingradimento dello stabilimento di Gargano, dove rimane il centro direzionale e nuove assunzioni. E no, non sono Matteo Renzi ma riporto quanto mi è stato specificato.
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A questo punto considerando che a noi la pasta piace enormemente, compresa quella di Garofalo, prima di puntare il dito, evocare scenari apocalittici e crocifiggere l’umile scriba pieno di dubbi, facciamo una cosa: lasciate perdere me e riempite di domande Emidio Mansi, direttore commerciale di Garofalo, nonché nostro storico lettore.
E’ un’occasione di crescita o l’ennesimo caso di Made in Italy venduto allo straniero?
Magari capiamo tutti meglio la situazione.
[crediti | Link: La Stampa, YouTube]