Vorrei chiedere scusa, e rassegnare le mie dimissioni (come peraltro già richiesto). Una vita a scrivere del genio dei Bottura, della grandezza di una certa estetica: quintessenzialmente Masterchef, una vita a dire quant’era immaginifica la cucina di Cracco, e invece, ad Harvard, la più spendibile università del pianeta, nella cattedra dove solo Ferran Adrià, prima d’ora, era stato chiamato, invitano Davide Oldani. A ottobre il cuoco milanese spiegherà il modello economico messo a punto per il suo ristorante, ritenuto più delle ricette, una case-history di strategia aziendale.
Oltre che per la mia miopia di commentatore, vorrei preventivamente chiedere scusa per eventuali farneticazioni: la provvidenza divina mi ha riservato un febbrone da cavallo e nel dibattuto incubo che ha preceduto la stesura di questo post si fronteggiavano il Bene e il Male, il santo e il peccatore, ciascuno ovviamente con opinionni distinte e contrarie:
– Bene: Il sistema Oldani è esemplare, il D’O un modello di ristorazione da imitare.
– Male: Non scherziamo, è solo un ristorante di Cornaredo (!?) che intristisce gli appassionati di cucina, non essendo vera cucina.
– Bene: 11 euro e 50 a pranzo, servizio e coperto compreso, sono troppo pochi per compiacere il tuo ego?
– Male: Deprime i gourmet, lo vedono come un cippo funebre del tipo “Qui giace l’alta cucina, al suo posto il nutrificio del vorrei ma non posso”. Poi, con un ghigno diabolico che come faccio a spiegarvelo, ecco servita la frase al cui suono ho dovuto svegliarmi:
“Chi ama i ristoranti odia Davide Oldani“.
Non è possibile, Davide Oldani è pronto a prendersi l’applauso cum lode laude della meno intercambiabile tra le università che se lo litigano a mezzo inviti – e io mi faccio prendere dai deliri?
Provo a concentrarmi, ragioniamo. Ad Harvard Oldani spiegherà il suo modello di business in dieci punti, questi:
1. La scelta del nome, breve e facile da ricordare.
2. L’accessibilità economica, un concetto diverso dal low cost, dovuto alla scelta dei prodotti diversi da un normale stellato, né caviale né aragosta, prerogativa fissa dei menu Michelin.
3. La stagionalità dei prodotti (che genera accessibilità economica).
4. L’etica dei collaboratori con cui avere un rapporto umano.
5. La convivialità all’italiana.
6. Il set up della tavola, semplice ma curata.
7. Il concetto di “pop”, punto d’arrivo di chi dopo non pochi maestri, ha mescolato il senza fronzoli con il ben fatto, buono e accessibile, innovazione e tradizione.
8. La differenziazione del marchio con i nuovi progetti, solo l’ultimo dei suoi cinque libri ha venduto 20 mila copie.
9. La ricerca di mercato.
10. La fidelizzazione dei clienti.
Allora come si fa a capire se Harvard ha chiamato il cuoco giusto, come? Se il D’O, il ristorante di Oldani, è il regno del no-frills chic o del vorrei-ma-non-posso? Ditemelo voi, perché io sono davvero sconsolato. Altrimenti dimettiamoci tutti, in blocco.
[Crediti | Link: Dissapore, Italia a Tavola. Immagine: Vanity Fair]