Esistono cause più urgenti per coalizzarsi, mi rendo conto. Gli ingorghi (e le vacanze in caduta libera?); le rapinose località di mare; i tavoli di bimbi urlanti al ristorante. Eppure dai tempi del mio primo buffet festaiolo fino all’ultimo, praticamente ieri, con George Michael in sottofondo che scambiava le Olimpiadi per il Gay Pride, ho maturato un odio viscerale per la macedonia. Non so chi condivida quest’antipatia, ma vi spiego le ragioni che avreste per iniziare a farlo.
La macedonia non è il fulgido esempio fatto dessert di democrazia da massaia (cioè del “per non scontentare nessuno, meglio mettere in tavola un po’ di tutto”). È l’accozzaglia assurta agli onori della tavola della domenica: forse perché la si mangia con la giusta compostezza ed è tagliuzzata in pezzetti microscopici, come uno stillicidio di dolci bocconcini con cui cucchiaino dopo cucchiaino si fa una quaresima del mancato dessert (quello vero).
I sapori si confondono in una babele di fruttosio e umori misti. La macedonia delle macedonie, secondo molte faccendiere della cucina domestica delle feste, è quella fatta di tanti cubettini uguali, tutti di 5mm x 5mm, che aiutino a digerire arrosti e timballi con il loro essere dei dolci-non-dolci – e diano una mano anche a sbarazzarsi della frutta macilenta che giace, per disinteresse collettivo, nella fruttiera-centrotavola.
Vecchi e bambini si aspettavano il gelato? E invece no, non diamogliela questa soddisfazione. AL posto di suadenti creme fresche, eccovi servita la mistura infernale e multisapore (quindi insapore) fatta di banane annerite e dal retrogusto liquoroso, pesche vizze, mele dalla consistenza molle e dalla polpa pallida, pere sfatte che cospargono il tutto con la patina biancastra dei loro microgranuli zuccherini. Il gelato, se c’è, è solo una capziosa pallina adagiata sulla cupolozza del pout pourri di frutta, come la più dolcigna delle prese in giro: non solo poco, ma magari pure di un gusto che non c’entra nulla, tipo stracciatella, caffè, gianduia, ovvero il misero avanzo di Barattolino o di Carte d’Or riesumato dal freezer.
‘Almeno un cucchiaino’, intimava mia madre chinandosi su di me, recalcitrante ad affrontare la mia prima volta a tu per tu con la poltiglia fruttosa. Ne feci fuori due, di cucchiaini, ma giurai a me stessa di fare in modo, per l’avvenire, che il cesto della frutta non arrivasse mai a contenere abbastanza esemplari da indurre qualcuno in casa alla loro decostruzione in coppetta.
Ma c’è anche una – altrettanto detestabile – variante moderna e radical chic della macedonia. Via la coppetta di porcellana del servito buono, allora, ed ecco la cocotte, il vetro resina di coppette all’orientale, bicchieri che sembrano tumbler da mojito e, in luogo dei cucchiaini, forchettine o perfino spiedini per infilzare stilosi il limpido e ipocalorico fiammifero di ananas.
C’è anche della radice di zenzero grattugiata, e le mele sono solo un ricordo, se non nella variante anglofona Granny Smith. La pesca ha lasciato il posto al mango e alla papaya, e in questa versione open minded del dessert surrogato fa la sua comparsa anche qualche acquoso e gigantesco cubo di anguria, che rimpiazza la salsina porosa della macedonia vecchia maniera con il succo puro, limpido, in fondo alla coppetta, da sorbire alla fine dei giochi come zuppa di miso.
Sia che si tratti di frammenti decomposti e pericolosamente zuccherati, sia che davanti a voi, al posto del meritato dessert, ci siano cubi di Rubik dai nitidi colori serviti in ciotoline dal design impeccabile, a voi il verdetto.
La macedonia, le macedonie: democrazia e understatement da fine pasto, dunque, o una subdola forma di indecisione ‘affettata’? Ma soprattutto, la tollerate?
[Crediti | Immagine: Pizzica di sale]