Possedere uno stile brillante aiuta a scrivere recensioni di ristoranti. Nulla annoia quanto leggere elenchi di piatti infiorati da definizioni tecnico-gastronomiche. Famoso per la qualità della scrittura è il tagliente e spiritoso critico britannico A. A. Gill, che per il Sunday Times si occupa anche di televisione.
Ma a parte la forma in cui ci viene servita una recensione, sono più attendibili i critici della categoria “amico dello chef” o i sostenitori dell’anonimato? L’anonimato ovviamente prevede che il recensore paghi il conto, il che mette in una disposizione d’animo più tignosa, che non perdona attese o piatti sbagliati. Difficilmente chi paga fa tanti assaggi, e può capitargli di inciampare in un piatto eseguito male proprio quel giorno, oppure nell’unica portata velleitaria di un menu. Per anni, negli Stati Uniti, ha imperversato Ruth Reichl, critica del New York Times, che si travestiva per non venire riconosciuta.
Il recensore terrorista, che lancia la bomba e se ne va, è più divertente da leggere, e i lettori tendono a identificarsi con le sue disavventure. Ma anche i “critici conniventi” hanno una ragion d’essere. Pensate al rapporto tra critici letterari e scrittori: spesso si creano amicizie e scambi intellettuali proficui per entrambi, come quello di Contini e Montale.
La frequentazione degli chef è utilissima per progredire e farsi un palato. Uno chef ti spiega le tecniche, il rapporto con le materie prime, ti racconta come funziona un ristorante. Ovvio che però, nel momento in cui ci si siede alla sua tavola, si riceve un trattamento speciale. E si tende a ricambiare.
Il critico gastronomico più famoso del mondo, il lugubre e solitario Anton Ego, protagonista di Ratatouille, in una celebre scena del film definisce in modo impeccabile il suo lavoro: “Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il loro lavoro al nostro giudizio; prosperiamo grazie alle recensioni negative che sono uno spasso da scrivere e da leggere. Ma la triste realtà cui ci dobbiamo rassegnare è che nel grande disegno delle cose anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero: ad esempio nello scoprire e difendere il nuovo”.
Perciò, quando un critico gastronomico tesse le lodi delle formichine eduli a zonzo nei costosi piatti dello chef più quotato del mondo, René Redzepi, non consideratelo un lacchè. Tutto sommato ci vuole più coraggio a ingurgitare formiche danesi vive che a stroncare un ristorante alla moda.
[Crediti | Dalla rubrica “Cibo e Oltre” di Camilla Baresani su Sette, inserto del Corriere della Sera. Immagine: New York Times]