La prima volta che andai al Noma di Copenhagen, alcuni anni fa, un amico mi disse con aria stupita: “Oh, quindi la Danimarca esiste”. All’epoca, Lego a parte, il dubbio appariva legittimo: dall’alto della mia laurea in storia, mi sento pienamente autorizzata a dichiarare che in Danimarca non è successo nulla per molto, molto tempo.
Avanti veloci a oggi, e Copenhagen è diventata una mecca per foodie: nel giro di una decina d’anni, il paese ha inventato di sana pianta (siete liberi di considerare questa come una metafora gastronomica, se vi fa piacere) la Nuova Cucina Nordica, che mette al centro la “semplicità, purezza e freschezza” delle materie prime dei paesi scandinavi.
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Uno dei fondatori del movimento, lo chef del Noma Rene Redzepi, è ormai diventato una celebrità globale e viene considerato uno dei grandi pensatori della nostra epoca: il clamore che segue ogni suo movimento ha avuto anche il perverso effetto che muschi, licheni e formichine (ingredienti sì presenti, ma tutt’altro che preminenti, in alcuni piatti del ristorante) tendono a essere associati alla cucina danese quanto gli spaghetti al pomodoro a quella italiana.
E così, la cucina danese – a livello di cultura, come dire, pop – sembra essere divisa tra due santini, egualmente votati a portare il cilicio gastronomico: da una parte la tendenza poco indulgente, amara e acida di Redzepi e dei suoi epigoni (forse il solo chef contemporaneo ad aver fatto “scuola” in un’età così giovane), dall’altra una cucina tradizionale la cui punitività luterana è rappresentata in modo poetico dal film Il Pranzo di Babette: una cuoca francese fugge da Parigi dopo la repressione della Comune e trova rifugio presso due sorelle ultra religiose in un villaggio dello Jutland.
Molti anni dopo, spenderà l’intera vincita alla lotteria per regalare al villaggio che la accolse un epico banchetto, distante anni luce dalla zuppa di pane raffermo e birra che è l’alimento base dei locali.
Finora, tutte le mie esperienze gastronomiche danesi sono state piuttosto fedeli a questi due poli.
Qualche settimana fa, invece, l’organizzazione no profit The Food Project mi ha invitato in Danimarca per provare due ristoranti che si ribellano (in una prima stesura, avevo scritto “sfuggono”: ma non c’è niente di casuale, invece) a questa narrativa.
Allergici alla classica sobrietà nordica, rappresentano la via danese moderna al ristorantone classico: una cucina non francese – ma certamente francesizzante, un misto di ingredienti locali e d’importazione, una sana diffidenza per le restrizioni della Nuova Cucina Nordica, e la scelta di collocarsi altrove rispetto a Copenhagen.
Henne Kirkeby Kro si trova a Henne, un villaggio sulla costa ovest dello Jutland. Breve inciso: per qualche ragione, la questione della “West Coast” pare essere per i locali di importanza capitale. Credo pensino a se stessi come ai depositari nordici della vibe della cultura californiana del surf: tipi chill, rilassati, mica come quelli della East Coast (a un centinaio di km di distanza).
Dal 2011, lo chef è l’inglese Paul Cunningham, quello che in gergo si chiama uno “chef da chef”: un cuoco forse non celeberrimo, ma molto apprezzato dai colleghi. Ha una storia singolare: il suo ristorante a Copenhagen, The Paul, era molto frequentato da vip: uno di quei posti dove si va per farsi vedere.
La cosa lo irritava profondamente (“voglio cucinare solo per persone che sono realmente interessate alla mia cucina”), così ha deciso di trasferirsi qui, a quasi quattro ore da Copenhagen, dove l’appassionato si reca in rispettoso pellegrinaggio.
Il luogo rispetta gli stilemi nordici: è una locanda di campagna dei primi dell’800, restaurata con impeccabile aderenza all’originale all’esterno ma tutta design scandinavo e photo art dentro. Dietro la locanda Cunningham ha allestito un enorme orto: le parcelle disposte con cura tale da essere vezzose, la piccola serra dove lo chef accudisce le erbe aromatiche e le piante – ormai spoglie – di pomodori, specie mediterranea e perciò tabù per gli adepti di Redzepi di più stretta osservanza: “Call the New Nordic Police!“, scherza.
In un prato poco distante ci sono due maialini neri, cui ho dato qualche spicchio di mela la mattina successiva alla cena: quelli hanno grufolato con espressioni di entusiasmo non dissimili dalle mie quando qualcuno mi porta caffè e brioche a letto. Sono entrata nella sala della colazione raccontando ai miei compagni di viaggio il mio momento bucolico e loro hanno evitato di incrociare il mio sguardo, continuando a masticare il bacon che avevano nel piatto (cucina New Nordic no, km zero sì).
In osservanza a questo nuovo topos geografico per cui in Danimarca si fa foraging come in Italia si suona il mandolino, siamo anche andati a raccogliere piante spontanee e arbusti che, ci ha detto la guida, in stagione sono perfetti per fare tipi differenti di snaps (una sorta di grappa).
Solo che la stagione non era mai questa, quindi la nostra conoscenza è rimasta teorica fino a che lei non ha estratto due bottiglie di snaps dallo zaino e lo abbiamo bevuto lungo il sentiero, battendo i piedi per scaldarci.
Uno del gruppo le ha mostrato una cosa gelatinosa che aveva raccolto, dicendo fosse un fungo commestibile. La guida ha precisato che si trattava di sperma di rospo. Abbiamo continuato a bere silenziosamente. La guida ha detto: “Uno dei vantaggi della mia professione è che posso bere sul posto di lavoro!”. Ma nel gruppo eravamo tutti giornalisti freelance e quindi non ha riso nessuno (abbiamo apparentemente dimenticato che ci sono professioni incompatibili con l’ubriachezza diurna).
L’altra tappa del nostro viaggio è stata il ristorante Frederikshøj, ad Aarhus – la seconda città del paese dopo la capitale.
A Wassim Hallal, chef libanese naturalizzato danese, di mantenere il legame con il nord sembra importare poco. Il locale ha l’aria di un posto che potrebbe trovarsi in una qualsiasi grande città europea – scelta tra quelle con ottima capacità di spesa – con qualche concessione bling-bling in stile Miami (sì, sono consapevole di stare prendendo molteplici licenze geografiche in questo pezzo).
La rivolta comincia dalla carta dei vini: in Danimarca, infatti, le carte dei vini ultra-naturali sono la norma – persino io, grande fautrice dei vini naturali anche nelle loro espressioni meno armoniche, ebbi un sussulto di fronte allo Chardonnay sfacciatamente marrone servito da Manfreds, il bistrot dello chef Christian Puglisi. Qui, invece, c’è ampio spazio per vini – e regioni – come dire tradizionali: per qualche ragione, in Danimarca è in genere più facile trovare vini dello Jura che della Borgogna, ma questo locale fa eccezione.
Nel menu, molti piatti appartengono alla tipologia “manca solo la banconota da 100€”, l’espressione con cui sono solita descrivere i piatti che uniscono due o più ingredienti molto pregiati: ricci e caviale; aragosta e uova di quaglia; Pata Negra e foie gras: una cena eccezionalmente divertente, in cui difficilmente un piatto arriva a tavola senza che qualcuno tra i commensali esclami “wow”.
All’allegria un po’ chiassosa e sopra le righe della cucina di Wassim Halal, Cunningham unisce una mano da chirurgo: la sua cucina è sempre esatta, impeccabile. Ogni sera, gli ospiti di Henne Kirkeby Kro trovano in tavola un banchetto da giorno di festa: un’infilata di ingredienti di pregio, cucinati con tecnica superba: per me, probabilmente la cena migliore dell’anno.
Eppure questi menu, dove il costo delle materie prime incide in modo significativo, sono più economici di quelli dei paladini della Nuova Cucina Nordica – il degustazione di Henne Kirkeby Kro costa 130€ a fronte dei 215€ del Noma.
Dunque: quella che era, in un’epoca non distante, l’esperienza “classica” del grande ristorante europeo (soprattutto francese), oggi appare invece come un’eccezione, una scelta eccentrica. Dal grande chef ci si attende ormai qualcosa di diverso: che nobiliti l’umile cipolla, che sbalordisca con la mortadella.
Si avverte in giro un certo pudore dei grandi ingredienti, quasi rischiassero di apparire, ormai, come una scorciatoia per cuochi modesti: lo chef che propone il foie gras è come l’attrice che si presenta sul red carpet con un tubino nero: una scelta scontata, noiosa, per chi non ha il coraggio di rischiare.
Ma allora a cosa devono il loro successo questo ristoranti: sono “di tendenza” proprio per il loro atteggiamento in controtendenza? Occupano una nicchia? Oppure sono l’avanguardia di una rivolta, il fronte della restaurazione gastronomica?
[Crediti | Link: Dissapore, immagini: Kasper Fogh]