Magnum… gelato… dolce… Gabbana. Eureka!
Così mi immagino la cerebrale, machiavellica e tortuosa associazione di idee che ha portato Giorgio Nicolai, il direttore marketing Algida – Unilever, insieme ai suoi scagnozzi a partorire la nuova creatura griffata Magnum. Un essere talmente mostruoso che perfino Roman Polanski avrebbe potuto scritturarlo senza ripensamenti per Rosemary’s baby: il Magnum Dolce&Gabbana.
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Il nostro gelato è diventato un ometto. L’estate scorsa si è concesso bagni di folla très chic con il Pleasure Store milanese, bissato un mese fa a Napoli e prossimamente a Roma. Adesso si è messo in tiro per festeggiare i suoi 25 anni. E che patty vuoi che sia se non hai almeno un paio di stilisti (si)culi che ti aiutano a spegnere le candeline corrugando le labbrucce a forma di culo di gallina. Detto, fatto (malgrado il momento poco opportuno).
Il via lo ha dato ieri Rosa Fanti, compagna di Carlo Cracco, nel suo profilo Twitter.
Merenda time #dgmagnum #happybirthdaymagnum @dolcegabbana pic.twitter.com/ytTFiyKcyc
— Rosa Fanti (@RosaFanti) May 8, 2014
Per il gusto di questo innovativo gelato, Algida punta tutto sull’avanguardia pura: vaniglia, scaglie di cioccolato e granella di pistacchio (spero non di Bronte perché vorrei tanto assagiarne un tipo diverso). In una parola: la noia. Suvvia, siate un po’ arditi e buttatevi sul gusto di arancino!
Ma la vera delusione di questo Magnum è che, una volta dischiuso il cofanetto che di Dolce&gabbanesco, fatta eccezione per due tristi caretti siciliani, non ha nulla, dall’interno il gelato ti guarda cereo, esangue, smunto e funereo. É nudo e asettico, una cosa molto frustante: secondo voi il selfie dovrei farlo fingendo di addentare con trasporto la confezione e non il gelato?
Perché, caro reparto marketing Algida, invece che stare tutto il giorno in ufficio a schiacciare i punti neri alle coccinelle avresti dovuto pensarci che io la patacca di D&G la voglio anche sul gelato, e che diamine!
Ora che il dado è tratto si tratta solo di capire perché un prodotto già nazionalpopolare come il Magnum ha sentito la necessita di ostentare una firma.
Per capirlo bisogna tornare indietro di qualche mese, esattamente alla settimana della moda di Parigi. Ve l’avevo detto che lasciare Karl Lagerfield rinchiuso nel suo supermarché circondato da scatole di Coco Choco, cartoni di lait de Madmoiselle e taniche di No. H20 Eau Minerale avrebbe fatto solo danni.
Ecco, ora che abbiamo il-magnum-di-e-gì e l’incubo è diventato realtà, sarete contenti.
E’ curioso come le opere di Peddy Mergui sembrino aver preso vita in un’apocalisse zombie. L’artista, nella sua mostra Wheat is Wheat is Wheat esposta al Museum of Craft and Design di San Francisco, succube di un beffardo sogno premonitore (o dei graziosi effetti allucinogeni della metanfetamina), aveva immaginato un mondo fatto di uova griffate Versace, pasta targata Ferrari, cofanetti di yogurt azzuro Tiffany e…biscotti da tuffare nel latte firmati Dolce & Gabbana.
Per un pelo Peddy, ma ti sei allonato di poco.
La triste verità è che siamo la generazione del griffato a tutti i costi, in cui se l’elastico delle mutande non grida il nome di uno stilista famoso non sei nessuno. Non ci rendiamo conto di essere, in realtà, giganteschi cartelloni pubblicitari gratuiti, e il magnum-di-e-gí è, probabilmente, la punizione che ci meritiamo.
Orsù chef scansatevi, avete fatto il vostro tempo. Oggi nel banco frigo è di moda la moda.
[Crediti | Link: Dissapore, Repubblica, IlSole24Ore, The Verge]