La raccolta dati per il meglio del 2014 è finita. Ci fanno male anche le unghie, ma forse siamo tutti vivi. Adesso bruciamo l’albero di Natale et voilà, ci balliamo intorno. Così ci si sente dopo aver assemblato le 30 cose più incredibili che abbiamo mangiato quest’anno.
Uno sforzo di memoria smisurato che ha costretto un anonimo redattore di Dissapore a scrivere: la fine dell’anno prossimo sparisco, prendo un volo, non mi chiamate neanche (Skype, What’s Up…) perché ve lo dico, non rispondo.
Ad ogni buon conto, godetevi la prima parte dello speciale e usate numerosi i commenti per scrivere le cose più incredibili che avete mangiato voi, nel 2014.
RISTORANTI STELLATI
[related_posts]
1. Uova in cocotte al tartufo bianco – Antica Corona Reale.
Certo questo è stato un anno un po’ infausto per l’economia mondiale, per non parlare della pace nel mondo ma soprattutto della vendemmia. Quantomeno, è stato un grande anno per il tartufo.
La mia scelta allora ricade sull’uovo in cocotte al tartufo bianco d’Alba dell’Antica Corona Reale di Cervere, chef Renzo e Giampiero Vivalda.
Sara Porro
2. Ravioli ripieni di olio d’oliva, seppie scottate e polvere ci cavolo nero – L’imbuto.
Una cucina come una bolgia ad un evento dell’alta società tramutato in caciara sincera. Ai fuochi Cristiano Tomei un mattatore e istrione con lo spirito migliore di taverna di mare, signore eleganti discinte, fiamme alte e bandane.
In un piatto piccolo da ristorante pettinato una purezza di raviolo vaporoso, suadente e succoso: e dentro, nel momento del morso, in cui la sfoglia si discioglie nella bocca come un’ostia, l’esplosione di tutta un’infanzia, di pasta con l’olio, di parmigiano pulito e pappa di bambino, di crescita, di essenzialità perseguita e voluta. Una cosa diretta e vera come un cartone sganciato sul viso.
Uno scherzo e uno sberleffo abbinati alla tecnica di uomo d’arte. Ed è questa l’arte (e molto spesso la condanna) della grande cucina: far sembrare cose complicate semplici, e travestire le più semplici emozioni di vesti molto, molto elaborate.
Giovanni Puglisi
3. Uovo in buca – La Peca.
Una delle maggiori consolazioni che il mondo sa offrire è la sorpresa. L’uovo in buca è una rivisitazione degli asparagi con le uova sode, solo che sembra il green di un campo da golf.
La montagnola è una vellutata di asparagi selvatici e altri dieci ingredienti che non ho avuto la pazienza di mandare a memoria.
La pallina (che è andata in buca) è un perfettissimo uovo in camicia, il cui tuorlo cremoso si mescola alla vellutata di verdure. La bandierina è croccante, e funziona perfettamente come rompi uovo e come grissino da inzuppare. Geniale lo chef Nicola Portinari.
Rossella Neri
4. Tortellini alla panna – Massimo Bottura.
I tortellini alla panna di Bottura, serviti sotto la pioggia di un divertente fine settimana a Cortina organizzato da Identità Golose.
Li ho mangiati compulsivamente in un impeto di fame chimica dal sapore universitario.
Adriano Aiello
5. Polenta, allodole, trippa di baccalà e tartufo bianco – Uliassi.
Tutto nasce per coincidenza, che è il contrario di casualità, non un suo sinonimo. A Senigallia per degli appuntamenti di lavoro, a metà pomeriggio chiamo, per scrupolo, Uliassi per vedere se ci fosse posto per cena. È bassa stagione e sono solo, per cui ho una certa fiducia che viene poi ripagata. All’arrivo, pondero i possibili percorsi per poi orientarmi sul menu Uliassi Lab 2014, tutto mare quindi.
Venti secondi dopo l’ordinazione, mi sento chiamare, alzo gli occhi e incontro un amico romano, ragazzo prodigio della critica gastronomica nazionale e grande forchetta. Non ci vedevamo da quasi un anno, complice la vita piuttosto nomade di entrambi. Anche lui da solo, era lì apposta per la caccia.
La caccia!
Mi fiondo sulla soglia della cucina a fermare la mia comanda, ci sediamo assieme e da lì inizia una serata memorabile piena di ritmo, contrasti e armonie, lucida follia e l’impeccabile precisione di un combo math-core. Difficile ma non troppo, scegliere una sola portata da quella che è la cena dell’anno.
Un piatto da iperspazio, con l’allodola (disossata) che gioca a rincorrersi con le frattaglie di baccalà –che io sia un fan assoluto del quinto quarto di mare è cosa piuttosto nota – in un caleidoscopio di rimandi in cui capisci perfettamente dove finisce una cosa e dove inizia l’altra, ma la giostra non si ferma se non ben dopo l’ultima forchettata.
Il tutto calmierato dalla polenta ma soprattutto impreziosito da un tartufo bianco che uno chef della mia terra cui auguro un futuro radioso ha portato al nostro tavolo a cena in corso, ed è stato aggiunto al volo ad alcune portate.
E dire che un incredibilmente fragrante e suadente Echezeaux 2003 di Renè Engel abbia ben accompagnato il piatto è dire poco.
Fabio Cagnetti
ALTRI RISTORANTI
6. Crudo di seppie – Piazzetta Colonne.
Sarà anche vero che “a Milano si mangia il pesce più fresco d’Italia” (cit.). Ma in città non ho mai mangiato nulla di così morbido e insieme consistente, di tanto sapido (nonostante non ci fosse sale, solo un filo d’olio extravergine) e insieme delicato come queste fettuccine di seppie brindisine, di cui ho fatto e rifatto il bis.
Se esiste l’umami, io l’ho sentito.
Francesca Romana Mezzadri
7. Fritto misto alla piemontese – Battaglino.
Per una toscana l’idea di fritto va poco oltre il coniglio e il pollo. Sicché quando l’amico torinese preannuncia il fritto misto alla piemontese, subito mi mette in guardia: “digiuna per un paio di giorni”.
In genere i commensali sono parecchi, resi famelici dal numero di portate –9 (nove!)– ognuna composta da tre pezzi: carne, verdura, e dolce. Una via crucis al contrario con stazioni di puro godimento tipo le lumache fritte, il cervello con l’amaretto o il semolino dolce con l’agnellino.
Alla nona portata si arriva comunque stremati, specie con le porzioni generose del ristorante Battaglino, in piazza Roma, 18 a Bra. Cercate di essere disciplinati.
Camilla Micheletti
PASTA FRESCA
8. Tortelli alle erbe, Da Aristide, mercato coperto di Carpi.
Sono nata in un posto dove il mangiare conta parecchio. Una volta in famiglia c’era chi impastava 12 uova per mettere tutti a tavola davanti a un piatto di tortelli o di cappelletti a secondo della stagione e della festa, con un calendario rigoroso.
Da quando la nostra razdora non c’è più, proviamo uno per uno tutti gli artigiani pastai e quasi sempre rimaniamo delusi.
I tortelli alle erbette di Aristide, che si mangiano a Pasqua, quest’anno ci hanno commosso, segno che il sapore era quello che cercavamo.
Rossella Neri
HAMBURGER
9. Smokey Robinson burger – Patty and Bun.
Londra investe pesantemente sugli hamburger viste le frequenti trasformazioni di negozietti fai da te in catene dai lauti fatturati.
Molti convengono che la miglior polpetta londinese appartenga a Patty & Bun, ristorantino alle spalle di Selfridges (replicato da poco vicino alla stazione di Liverpool St.) che la spoglia di fronzoli per tornare alle radici. Niente è come lo Smokey Robinson burger (sì, il riferimento è al grande cantante soul), un morbido bun (panino) con ingredienti scelti e cottura irreprensibile sia della carne che del bacon (a stecchetto).
Risultato finale un hamburger insuperabile che mi ha costretto a leccare le dita. Non lo facevo da quando avevo 10 anni.
Andrea Soban
DOLCI
10. Plénitude – Pierre Hermé.
La mia scelta ricade, come prevedibile, su due dolci. Il primo è il famoso Plénitude del pasticciere Pierre Hermé.
Una base di macaron al cioccolato, ingioiellato con chips di cioccolato fondente e fior di sale, semisfera di mousse di cioccolato amaro, una colata di ganache fondente e sbrilluccicosa e scaglie di caramello scoppiettanti.
Rossella Neiadin
11. Cioccolatini – Ristorante Bartholomeus.
Poi ci sono i cioccolatini dello chef Bart Desmidt, del Ristorante Bartholomeus di Heist, in Belgio. Ho conservato le scatole come un feticcio, lo faccio sempre quando mangio qualcosa di speciale.
Le praline meglio riuscite? Cioccolato fondente ripieno di fragola, pepe e limone e la barretta al babelutte (caramello tipico delle Fiandre) e menta.
Buone anche le “boobies”, bella la frase che accompagnava la confezione (“Pleasure arises from craftmanship, taste from love”). Peccato non avessero retrogusto di tette.
Rossella Neiadin
BIRRA
12. Iris Grand Cru 2003 – Cantillon.
Era freddo a Trieste d’Ottobre, ma alla Taverna dei Mastri d’Arme non sentivi che legno e calore. Dalla riserva speciale dell’amico Elio si versava questa trasfigurazione di bronzo e oro stagnante, oceano morbido di spigoli, sfogliatura xilografa d’infiniti strati.
Poi, si andava a casa.
Giovanni Puglisi
13. Straff – Extraomnes.
Laboratorio al recente Salone del Gusto di Torino, che è anche una rimpatriata tra due birrofili d’eccezione: Lorenzo Dabove (Kuaska) e Luigi d’Amelio (Schigi). E’ proprio lui a raccontare come la Straff sia l’omaggio sentito a una birra che ama molto, la Avec Les Bons Voeux della Brasserie Dupont, belga of course.
Una saison che rasenta la perfezione, pericolosissima alla spina per effetto dei 9,5 gradi che senti solo alla fine del boccale.
Andrea Soban
BIBITE
14. Gazosa al sambuco – Fiorenzana.
Il Canton Ticino é patria della gazzosa, buonissima quella al mandarino, ma la mia preferita é quella al sambuco.
Frizzantissima e dolce, con un sapore deciso, é quella classica bibita di cui potresti gonfiarti lo stomaco fino alla nausea. E comunque, ad oggi, la nausea non mi é ancora venuta.
Carlotta Girola
VINO
15. Barolo Riserva Speciale Collina Rionda 1982 – Bruno Giacosa.
Monumenti. Non mi interessa fare classifiche o dare punteggi, né disquisire se il più grande Barolo di sempre sia il Monfortino di Conterno o una delle etichette rosse di Giacosa, a meno che non sia il pretesto per aprirne diverse bottiglie tutte assieme.
Quello che mi interessa, e mi elettrizza, comincia quando prelevo in cantina una bottiglia carica di aspettative, e raggiunge il suo zenit in quegli interminabili secondi tra l’estrazione del tappo e il primo contatto con il liquido.
Sono gli stessi attimi che si vivono quando si scrive, osando più del solito, al proprio oggetto del desiderio, e si resta in attesa. Attimi in cui passa tutto il timore che la bottiglia non sia buona, la serata si riveli un fiasco, gli amici accorsi proprio per bere quella bottiglia, accollandosene parte dell’esorbitante costo, siano insoddisfatti e la propria reputazione di cacciatore di grandi bottiglie ne risulti intaccata.
Nulla di tutto questo. Diamine, è perfetto!
Arancia sanguinella gloriosamente ancora piena di succo dopo oltre trent’anni. E poi ovviamente tanto di più, cuoio e scatola di sigari, legno di cedro e fava grezza di cacao, e il famigerato goudron, uno di quei termini che tanto piacciono a chi vuole darsi un tono (spiegato come lo spiegherei a un neofita assoluto: odore di catrame, però buono. Tipico del nebbiolo evoluto).
Non perde un colpo in bocca, è ancora fresco, mostra almeno dieci anni di meno, il tannino austero, fine come una sciarpa di cachemire. E non finisce mai, o almeno così vorremmo che fosse. Grazie, Bruno Giacosa.
E grazie anche al collezionista di madrelingua tedesca da cui sono riuscito a procurarmi cotanta reliquia.
Fabio Cagnetti
[Crediti | Link: Wikipedia, Brasserie Dupont. Immagini: alfuoco, barolista, beerscout, affairedebieres, dreamingrooms, isymposium, viaggiatore gourmet, cappuccinoecornetto]