Ancora una volta la guida Ristoranti d’Italia del Gambero Rosso viene presentata agli addetti ai lavori mentre questi ne conoscono già i risultati: l’anno scorso fu colpa di una commercializzazione anticipata in alcune librerie, stavolta ci ha pensato l’Ansa. In ogni caso, è un’edizione che si farà ricordare più per quanto sentenziato sulle pizzerie che sui ristoranti.
Quattro i locali premiati con i tre spicchi, nessuno a Napoli città: La Fucina e Sforno a Roma, I Tigli a San Bonifacio (VR) e l’unico campano è Franco Pepe. Sono certo che molti napoletani, pizzaioli e non, alla notizia che la più a sud delle migliori pizzerie d’Italia è a Caiazzo si siano prodotti nella facile rima. In effetti l’indignazione dei pizzaioli è divampata come un incendio, e avrà il suo culmine oggi alle 13 con un’iniziativa di protesta a Napoli, via dei Tribunali, nella pizzeria di Gino Sorbillo, per quanto mi riguarda –ed è opinione complessivamente condivisa- fra i pizzaioli napoletani quello che più di tutti avrebbe dovuto figurare in quella lista.
C’è poi lo spot della guida, che mette alla berlina i critici improvvisati da Tripadvisor e affini. Ora, su Tripadvisor la qualità delle recensioni è spesso infima, ma non sono sicuro che una campagna pubblicitaria che miri a denigrare la figura del blogger dipingendolo come ignorante, inaffidabile e in malafede sia una mossa in grado di sollevare il gradimento del pubblico verso le guide. Sarebbe stato meglio puntare sui propri punti di forza invece che sulle debolezze di quelli che non sono neanche veri e propri concorrenti.
Tornando alle pizzerie, bisogna chiedersi perché tra le quattro migliori d’Italia la redazione del GR non ne abbia inclusa neppure una della provincia di Napoli. Innanzitutto bisogna sottolineare come nella diatriba tra pizza tradizionale e pizza gourmet, a giudicare dalle scelte, sia stata favorita la seconda. L’eccezione è Pepe che, dalla provincia di Caserta, fa una pizza tradizionale con tutti i crismi. I Tigli, al contrario, è il locale simbolo della new wave della pizza, e La Fucina appartiene alla stessa categoria. Sforno lo metterei alla voce “compromesso storico”, sia perché è una pizza in apparenza tradizionale ma con dietro un lavoro di ricerca importante, sia perché le pizze che l’hanno reso famoso, Cacio e pepe e Greenwich, si collocano senza possibilità di errore tra quelle creative.
Perlomeno Sorbillo e Ciro Salvo (pizzeria Massè a Torre Annunziata) avrebbero dovuto essere inseriti, magari assieme a un altro personaggio discusso dai puristi, quell’Enzo Coccia la cui pizzaria (sic) La Notizia è considerata “eretica” e troppo “ingiaccacravatta” rispetto alle origini popolari della pizza. Mi sorge tuttavia un dubbio: e se per le pizzerie fossero stati utilizzati gli stessi criteri dei ristoranti, che prevedono il 40% del voto determinato da carta dei vini e servizio? La prima di queste due voci appare come l’unico vero appiglio per penalizzare i templi della pizza napoletana, anche se c’è da chiedersi a chi possa giovare tutto ciò. Certamente al Gambero Rosso, specie nel caso abbia sposato la teoria del “purché se ne parli”: se ne sta parlando, e tanto, seppur in termini generalmente non positivi.
In tutto questo, però, c’è anche una guida ai migliori ristoranti d’Italia.
– PICCOLI MOVIMENTI IN VETTA.
Al duo Bottura-Vissani si affianca la Pergola dell’Hilton. Si potrebbero dire molte cose, per esempio che la guida non vuole dare un nome secco come ristorante migliore d’Italia, oppure che in uno solo di questi tre ristoranti la cucina è probabilmente (certamente, per me) la migliore d’Italia, per gli altri lo si può dire del servizio. E in un Vissani da tempo immemore in cima alla classifica, devo dire, purtroppo, che negli ultimi due anni non ho riscontrato solo alti (come un umido di tacchinella all’umbra con wafer di umido e fava di Tonka davvero strepitoso), ma anche qualche piatto non all’altezza della reputazione dello chef. Insomma, un declino c’è. Magari meraviglioso, ma pur sempre declino.
– TRE FORCHETTE: CHI SALE.
Sale di addirittura otto punti Vittorio, affiancando alle tre stelle Michelin che ha già altrettante forchette, e lasciando Pinchiorri e l’incomprensibile Sorriso di Soriso soli nel novero dei tristellati biforchettati (scusate). Sale tardivamente a tre forchette il Povero Diavolo di Pier Giorgio Parini, da anni additato come uno dei migliori ristoranti dello Stivale: che sia un monito sul connubio di affidabilità unita a scarsa reattività che caratterizza le guide cartaceee. Salgono infine due chef tra cui ravviso numerosi punti di contatto: Antonino Cannavacciuolo di Villa Crespi sale meritatissimamente (ehi, sono riuscito a infilare una parola più lunga di “Cannavacciuolo” in una frase su Cannavacciuolo!) ai piedi del podio, mentre Ilario Vinciguerra fa tre passi avanti e raggiunge la serie A della guida. Due esponenti della Campania felix fuori zona, che nel profondo Nord propongono una cucina contemporanea ma calda, piena di materia e gusto. Sono tavole dove puoi andare con la fidanzata non gastrofanatica senza che ne rimanga insoddisfatta, ma anche con quella fissata quanto te con l’alta cucina certo di fare bella figura.
– TRE FORCHETTE: CHI SCENDE, PERDENDOLE.
Scendono La Gazza Ladra di Modica, lasciando Pino Cuttaia (La Madia) unico tre forchette in Sicilia, e la Stua di Michil. E’ sospeso Trussardi in attesa che si definiscano i contorni del dopo-Berton. Scende a sorpresa il Combal.Zero di Davide Scabin, forse un declassamento preventivo in vista del trasferimento a Milano. E altrettanto a sorpresa scende Caino, l’unico fra questi dove ho mangiato di recente e sul quale posso esprimermi dicendo che “forse” era il caso che restasse lì sopra.
– I CASI UMANI.
In Italia ci sarebbero 18 ristoranti migliori di Uliassi. Magari ci fossero, eh. Dopo la guida di Roma, c’è stato modo di togliere altri due punti alle Colline Ciociare, come se già 89 non fosse percepito come un punteggio troppo basso. E niente, pare che in Italia, di tassa, scenda solo Salvatore. Mistero. In Lombardia ha due forchette per puzza (80) Acquerello, dove non ho mangiato peggio che da Vinciguerra, cioè assai bene, mentre masticano amaro i televisivissimi Cracco, primo a Milano ma solo “per squalifica” e quinto in Lombardia, e Oldani. Caso umano anche Fabio Baldassarre (Unico). Paolo Lopriore (Il Canto, per qualcuno che considero qualificato addirittura il miglior ristorante d’Italia), un tempo triforchettato, si ferma a 86: sic transit gloria mundi. L’84 di Igles Corelli (Atman), che a Pescia sta vivendo una seconda giovinezza dopo la prima, irripetibile e inimitabile, del Trigabolo di Argenta, grida vendetta, assieme all’Enoteca Le Case di Macerata che ha lo stesso voto, tre punti meno del Giardino di San Lorenzo in Campo. Seriously? Finisco di lamentarmi con un ulteriore 84, quello di Andreini; quest’anno ho mangiato da lui e dall’ottimo Roberto Petza (S’Apposentu) a 48 ore di distanza e i tre punti di distacco in favore del secondo mi paiono un baratro di difficile giustificazione.
– TRE GAMBERI.
Li prende l’Osteria del Treno a Milano, un locale storico, onestissimo, dall’ottimo rapporto q/p in città, ma senza particolari acuti. Li perde il Convento di Cetara, per me il migliore rapporto q/p d’Italia. Ma forse è perché Pasquale Torrente ora è pressoché stabile alla friggitoria di Eataly Roma?
– “MAI SENTITO, DEVO ANDARCI PER FORZA!”.
Ecco, questa è la frase che non ho pronunciato scorrendo i voti della guida di quest’anno.
E ora a voi, avanti con le lamentele! A quelli del Gambero, lo sapete com’è il gioco, accorciate i musi lunghi, dai…
[Crediti | Video: Gambero Rosso, elaborazione immagine: Massimo Bernardi]